Dalla terrazza della scuola materna Cornelia Calieri a Castellammare, dove oggi vive con le altre sorelle della Provvidenza e dell’Immacolata, il carcere di Poggioreale di certo non si vede, ma lei ce l’ha stampato nei suoi occhi celesti. Suor Clotilde è l’ultima delle 35 suore che hanno vissuto con le detenute fino al 1976 quando il reparto femminile, che oggi ospita il padiglione Torino, ha chiuso. Anche se a lei non piace chiamarle detenute.
«Per me erano ospiti. Ho ricevuto solo bene e ho imparato a non giudicare e cosa significa il perdono» racconta sfogliando le foto dell’epoca, dietro ognuna ha scritto l’anno e l’occasione e quando le si chiede se ricorda i loro nomi risponde senza esitare «tutti, uno ad uno». Infermiera, Suor Clotilde nel padiglione del centro medico San Paolo dove ancora oggi ci sono i detenuti malati, preparava i ferri per gli interventi chirurgici. I suoi occhi e le sue mani erano gli ultimi che vedevano e stringevano prima di entrare in sala operatoria e di chiederle: “Suor Clotilde ma mi risveglierò?”.
Tanti anche i bambini che ha visto nascere in carcere. «Riuscimmo anche ad avere – dice mostrando la foto di una mamma detenuta con i bambini in cella – le culle con il tulle». Tanti i ricordi. Lei e le altre suore vivevano nelle celle del carcere insieme alle detenute. Cucinavano, tenevano i conti e si occupavano di tutto quello di cui c’era bisogno. Loro era anche il compito di chiudere le celle, i cancelli e sorvegliare il portone principale. «C’era tanta confidenza con le ragazze, si fidavano di noi» dice mentre chiede scusa perché gesticola tanto.
«Sono napoletana – giustifica sorridendo suor Clotilde che è cresciuta in una famiglia benestante a Corso Umberto e che non si è mai lasciata incantare da spider ma andava in giro in bici o sui pattini quand’era ragazza – . C’ho il pepe». Ottant’anni a marzo tornerebbe in carcere ad aiutare le sue ospiti anche domani. «Oggi in carcere non è più così. Le guardie hanno tanto da fare e non c’è nessuno che si occupa dei detenuti. C’è bisogno di qualcuno che si dedichi a loro, che li ascolti, li consigli, potrebbe aiutarli tanto e salvarli».
Come quella volta che in infermeria da lei arrivò una ragazza. «Sapevamo più cose noi che l’avvocato. Quella ragazza pian piano si confidò. Non doveva stare in carcere, era innocente». Si era incolpata di un reato al posto della sorella che aveva due figli piccoli. «L’abbiamo aiutata, la misericordia bisogna metterla in pratica. Oggi vive a Milano, è sposata, ha tre figli che mi chiamano zia – dice mentre le si illuminano gli occhi dietro i vetri tondi degli occhiali – e spesso viene a trovarmi».
Tanti i volti e tante le storie custodite tra le foto, nelle parole, nei gesti. «Molte venivano da situazioni difficili con famiglie disgregate e mi chiedevo che avrei fatto io al posto loro. Forse tre volte peggio». Suor Clotilde spesso si interrompe da sola «ne avrei tante da raccontare, ma se dico troppo finisce che mi trasformo da carceriera a carcerata» scherza. Battuta sempre pronta come quella volta che una detenuta con 7 figli, senza marito, che per sfamarli faceva il contrabbando di sigarette le disse “Suora mantenetemi la cella perché tra poco sto di nuovo qua”. E lei rispose: “Sì ora ci metto una targhetta con su scritto ‘riservato’”.
Dai giorni della rivolta degli uomini nel carcere ai due anni passati nel carcere di Bologna «lì c’erano più ospiti politici e quando parlavi dovevi stare molto attento», o i tanti ragazzi drogati che ha visto nel carcere «davamo loro il metadone».
Suor Clotilde nei giorni scorsi è tornata nel carcere di Poggioreale per un pranzo con i detenuti. Tantissimi giovani. «Qui c’entra anche il Governo, ci vuole il lavoro per salvarli». Poi le guance le diventano rosse, gli occhi brillano: «Ho conosciute tante giovani con reati orribili. In quel carcere ci siamo volute bene. Le amavo come mamma, come sorella e come amica ed ho avuto tanto». E di certo hanno avuto tanto anche loro.