Torre del Greco. Non hanno nemmeno l’età per guidare l’auto, eppure già sono tra i beneficiari di un trust milionario depositato nei paradisi fiscali del Mediterraneo.
E’ uno degli ultimi retroscena del “romanzo armatoriale” di Torre del Greco. La saga giudiziaria che racconta la storia del crac da 800 milioni di euro della Deiulemar compagnia di navigazione, il colosso armatoriale affondato nel 2012 che ha fatto colare a picco 13mila famiglie di risparmiatori.
Tra i beneficiari di uno dei trust finiti al centro del più grande fallimento della storia della città del corallo, ci sono anche alcuni minorenni, i figli degli armatori che per decenni hanno gestito e amministrato il colosso economico con base in via Tironi. A confermarlo – direttamente ai giudici del tribunale di Torre Annunziata attraverso una nota scritta – sono stati i difensori del trust Bigei: rapporto giuridico depositato a Malta, una delle isole “preferite” dagli imprenditori falliti a capo della Deiulemar.
Un intoppo che rischia di rappresentare l’ennesima beffa per i risparmiatori messi in ginocchio dal fallimento. Si, perchè la presenza di minorenni tra i beneficiari del trust – un contenitore di beni, titoli e azioni riconducibili agli armatori – potrebbe rendere tortuoso il percorso di acquisizione al fallimento dei beni. Una “patata” bollette che – dopo il rinvio della discussione sul caso a ottobre 2017 disposto dai giudici – s’intreccia alla “trattativa” intavolata dagli armatori che hanno deciso di collaborare con lo Stato. Comitato dei creditori e Curatela Fallimentare stanno valutando – caso per caso – tutte le ipotesi di transazione proposte dagli armatori. Gli imprenditori condannati in primo grado per bancarotta fraudolenta hanno, infatti, proposto di “liberare” alcuni dei trust finiti nel calderone del crac in cambio di una quota su titoli, beni e azioni. Proposte che verranno analizzate – fanno sapere i rappresentanti degli obbligazionisti – partendo ovviamente dal “peso” economico dei beni messi a disposizione dagli armatori.
Un braccio di ferro che rischia di monopolizzare il dibattito nel corso dei prossimi mesi. Mesi caldissimi nel corso dei quali potrebbero “sbloccarsi” le procedure per aprire le aste pubbliche.
Da vendere ci sono i tanti beni immobili finiti al centro del crac. Da Palazzo D’Avalos a Napoli – in parte gestito da un’impresa riconducibile agli armatori – ma anche il “palazzo” Deiulemar, la storica sede di via Tironi e le altre “regge” degli armatori. Poi ancora i capannoni industriali abbandonati usati negli anni dall’impresa.
Un piccolo tesoro che va «ceduto in tempi brevi», come ripetuto dai risparmiatori per evitare che sul conto del fallimento si accumulino spese e costi di manutenzione. Sullo sfondo, poi, c’è anche l’incognita relativa alle richieste tardive di accesso al fallimento presentate da centinaia di risparmiatori. Richieste che potrebbero rendere ancora più corposo il peso economico del fallimento che ha mandato gambe all’aria le economie della quarta città della Campania.