Ercolano. «Ergastolo». «Ergastolo». «Ergastolo». Cala il silenzio sull’aula del tribunale di Napoli, quando il pubblico ministero dell’Antimafia, Sergio Ferrigno, legge la sua requisitoria. «Ergastolo» ripete il pm della Dda, puntando il dito contro i tre imputati finiti a processo.
Sono accusati di aver ucciso un innocente solo perché aveva la stessa macchina di un boss del clan rivale. Lui si chiamava Salvatore Barbaro, aveva 29 anni, una fidanzata e un sogno nel cassetto: diventare un cantante. Per arrotondare, tra un matrimonio e un altro, faceva mille lavori, compreso il muratore. Quel giorno con la sua Suzuki Swift stava percorrendo via Mare, a Ercolano, una stretta stradina che s’inerpica fino in cima a via Pugliano. I killer lo raggiunsero in motorino e gli spararono addosso un intero caricatore. Salvatore morì così, per un assurdo e imperdonabile scambio di persona. Lo hanno detto le indagini dell’Antimafia, lo hanno detto i pentiti e lo hanno ripetuto gli stessi imputati nel corso delle precedenti udienze del processo: «Barbaro con la camorra non c’entrava niente», le parole arrivate da chi oggi è dietro le sbarre con l’accusa di aver ucciso un ragazzo senza colpe.
«Ergastolo» è la parola che ieri, davanti alla Quarta Sezione della Corte d’Assise del tribunale di Napoli, ha fatto gelare il sangue di Natale Dantese, il boss del clan Ascione-Papale che ha assistito al processo in videoconferenza. Il capoclan di via Canalone, il padrino dello spaccio si trova recluso da anni al 41bis nel braccio di massima sicurezza del carcere di L’Aquila. «Ergastolo» è la condanna invocata dal pubblico ministero anche per Pasquale Spronello e Antonio Sannino, i due uomini accusati di aver partecipato all’organizzazione e all’esecuzione del delitto commissionato – secondo la Dda – da Dantese. Un massacro che sarebbe stato realizzato – questa è la tesi degli inquirenti – dalla mano di Vincenzo Spagnuolo, condannato a 30 anni di carcere per questo omicidio nel processo di primo grado che si è svolto con rito abbreviato.
«Ergastolo» è una parola che ha il sapore della giustizia per i familiari di Salvatore Barbaro. I parenti del ragazzo che sognava di cantare – «La musica è la mia vita», recita il testo di una delle sue canzoni – hanno partecipato all’udienza di ieri. Seduti, in silenzio, in un angolo. Come hanno sempre fatto negli ultimi anni. Nessun gesto, nessuna parola. Solo un sussurro: «è quasi finita». Da 8 anni chiedono la verità, combattono per far conoscere al mondo la storia di quel ragazzo semplice e dagli occhi grandi. Per anni su Salvatore è calata l’ombra del sospetto. Almeno fino a quando – nel 2015 – i carabinieri di Torre del Greco e la Procura di Napoli non hanno ottenuto l’arresto dei presunti assassini. Dall’ordinanza messa in piedi dalle indagini dell’ex pm anti-camorra, Pierpaolo Filippelli, viene fuori quello che tutti sapevano. Cioè che Salvatore non era un camorrista e che i killer avevano sbagliato persona, scambiando la sua auto per quella di Ciro Savino, un boss del clan Birra-Iacomino, i nemici degli Ascione-Papale negli anni della guerra di camorra.
I 3 imputati si sono sempre professati innocenti. Ora starà agli avvocati della difesa dimostrare la loro innocenza. Entro fine anno potrebbe arrivare la sentenza. Intanto nel silenzio dell’aula si solleva un sussurro: «E’ quasi finita» ripetono i parenti di Salvatore, mentre il pm grida ancora verso le sbarre: «Ergastolo».