Incastrato da un’inchiesta giornalistica, un deputato napoletano accusato di legami con la camorra si è dimesso. Una bella notizia che restituisce un po’ di fiducia nelle Istituzioni. Peccato che la notizia non sia proprio fresca. L’episodio, infatti, è accaduto tra il dicembre del 1899 e il 1900. Il parlamentare inchiodato alle sue responsabilità si chiamava Alberto Agnello Casale: le sue malefatte furono raccontate, con dovizia di particolari, dal giornale socialista «La Propaganda» (una rivista che si trasformò poi in quotidiano), impegnato in una solitaria e coraggiosa campagna contro il sistema criminale che agiva all’interno dell’amministrazione comunale di Napoli guidata da Celestino Summonte.
Forse oggi il lavoro dei giornalisti de «La propaganda» sarebbe accolto soltanto con qualche moto d’indignazione ma alla fine il politico accusato di contiguità con i clan resterebbe saldamente al suo posto. All’epoca, invece, il periodico socialista riuscì a vincere la sua battaglia. L’inchiesta riguardò diversi esponenti politici, il più potente dei quali era proprio Casale. Lo accusarono di essere stato eletto con il sostegno dei camorristi della Bella Società Riformata e di essere coinvolto in una serie di imbrogli legati all’amministrazione Summonte.
Il lavoro de «La Propaganda» suscitò la reazione del deputato napoletano, Giacomo De Martino, che propose l’istituzione di una «Commissione parlamentare d’inchiesta su Napoli e Palermo e sulle condizioni politiche, sociali ed amministrative di queste due città nei rapporti della mafia e della camorra».
De Martino era convinto che la politica avrebbe dovuto avere il coraggio di fare pulizia e per sostenere la necessità di indagare a fondo scrisse: «Napoli ha più di ogni città d’Italia una massa enorme di non abbienti, venuta man mano crescendo dalle dissestate condizioni economiche della città. […] Nelle masse non abbienti impera la camorra, cioè la violenza e il predominio individuale. In questa massa dominano il diritto di camorra sugli scambi, i dichiaramenti per le vie pubbliche come affermazione di superiorità o come riparazione di offesa. Ma queste masse, diventate in gran parte elettorali, hanno acquistato una forza e un valore amministrativo e politico. Quelle masse guidate e comandate dalla camorra non possono avere ideali, ma interessi. Donde e come si creano? Dalla vita amministrativa, e così sorge l’altra camorra. Tutta una fitta rete di interessi avviluppa la vita amministrativa. Nell’alto si formano gli appalti, i contratti, le cessioni pubbliche: su di esse si arricchiscono i pezzi grossi, ma a quelli appalti, a quei contratti, a quelle concessioni partecipa man mano la bassa camorra che è loro assoldato. Tutto è latente, abilmente dissimulato nella vita comune, ma venga il giorno delle elezioni e voi vedrete scatenata per la città tutta questa massa ingorda, famelica, minacciosa. Allora, senz’altra dimostrazione, s’intende cos’è la camorra, qual è il potere, quali sono i suoi fini. Qualunque inchiesta, fatta onestamente e coraggiosamente, dimostrerebbe che l’amministrazione comunale di Napoli è guasta e corrotta nelle midolla e che, sorta da compromessi con la camorra, alta e bassa, per essa e con essa vive».
La richiesta di istituire una Commissione non fu accolta, ma nonostante la solitudine i giornalisti de «La Propaganda» continuarono la loro inchiesta, svelando attraverso quali meccanismi corruttivi e collusivi Casale era riuscito a costruirsi una carriera politica. Sfidarono il deputato a querelarli e lui accettò trascinandoli in tribunale, convinto evidentemente di vincere il braccio di ferro contro quel pugno di spericolati cronisti. Nell’aula di giustizia Alberto Agnello Casale non riuscì a dimostrare che quelle contro di lui erano solo delle infami calunnie, perse la causa e il 31 ottobre del 1900 i giudici dovettero assolvere i redattori del giornale socialista perché avevano solo scritto la verità. Dopo essere stato sbugiardato in tribunale, Casale decise che l’unico modo per non farsi travolgere da una ondata di fango era quello di dimettersi, e infatti lasciò il seggio.
La vicenda del deputato napoletano produsse tuttavia una importante conseguenza. Poco dopo il processo nacque la Regia commissione d’inchiesta per Napoli presieduta dal senatore piemontese Giuseppe Saredo, nata nel dicembre del 1900 per volontà del capo del governo e ministro dell’Interno Giuseppe Saracco. Per Saracco, l’onorevole Casale poteva non essere l’unico ad aver stretto un patto con i camorristi e affidò a Saredo il compito di accertare fino a che punto la politica a Napoli fosse corrotta o condizionata da gruppi criminali. Il lavoro della Commissione durò poco meno di dieci mesi, furono ascoltati oltre mille testimoni, e la relazione finale fu pubblicata in undici volumi. L’esito dell’indagine si rivelò ancora più inquietante di quanto si potesse immaginare. La Commissione Saredo scoprì che accanto a fenomeni di corruzione, peculato e commercio delle assunzioni, l’amministrazione comunale era fortemente condizionata dai camorristi che avevano avuto campo libero per infiltrarsi nella politica. Nella relazione si faceva cenno alla presenza di due tipi di camorra: quella «bassa» della plebe, e quella «alta» della borghesia, del commercio e di parte del ceto intellettuale. E, inoltre, si denunciava il ruolo decisivo dei criminali alle elezioni.
Alla fine dell’inchiesta, la Commissione scrisse: «Seminando la corruzione nel corpo elettorale col farlo funzionare a base di clientele e d’interessi, mantenendo innestata la politica all’amministrazione, aprendo alla camorra l’adito a esercitare la sua prepotente azione nella funzione elettorale, e rendendola così indirettamente quasi arbitra della vita pubblica, volgendo infine tutta la vita medesima a servizio delle elezioni, si determinarono nell’organismo rigenerato, con la riproduzione di parecchi degli antichi mali, che quasi accennavano a scomparire, anche nuovi e peggiori che per la loro essenza ne compromettevano la vitalità. Il male più grave, a nostro avviso, fu quello di aver fatto ingigantire la camorra, lasciandola infiltrare in tutti gli strati della vita pubblica e per tutta la compagine sociale, invece di distruggerla, come dovevano consigliare le libere istituzioni, o per lo meno di tenerla circoscritta».
La Commissione Saredo denunciò anche le collusioni tra camorra e “colletti bianchi”: «Costoro profittando della ignavia della loro classe e della mancanza in essa di forza di reazione, in gran parte derivante dal disagio economico, e imponendole la moltitudine prepotente e ignorante, riuscirono a trarre alimento nei commerci e negli appalti, nelle adunanze politiche e nelle pubbliche amministrazioni, nei circoli, nella stampa. E quest’alta Camorra che patteggia e mercanteggia con la bassa, e promette per ottenere, e ottiene promettendo, che considera campo da mietere e da sfruttare tutta la pubblica amministrazione, come strumenti la scaltrezza, la audacia e la violenza, come forza la piazza, ben a ragione è da considerare come il fenomeno più pericoloso, perché ha ristabilito il peggiore dei dispotismi, elevando a regime la prepotenza, sostituendo l’imposizione alla volontà, annullando l’individualità e la libertà e frodando le leggi e pubblica fede».
Un’analisi che sembra scritta ieri. Invece era il 1901. In oltre cent’anni, dunque, molte cose sono rimaste com’erano.