«Diciamoci la verità, il latte è una bontà». Lo slogan campeggia sul palco davanti allo stabilimento Parmalat di Piana di Monte Verna. E’ un focus importante dove i protagonisti di una filiera «corta» e di qualità si confrontano sul tema del benessere animale, della produzione sostenibile, della necessità di rilanciare il consumo di un alimento centrale anche nella dieta Mediterranea, come ricorda Annamaria Colao, endocrinologa e docente della Federico II. Sotto i capannoni c’è un gioiello industriale di una Campania che produce e guarda al futuro. Alle spalle la “stalla” targata Cirio Agricola, la più grande d’Europa e un complesso di attività che comprendono la produzione di energia e di foraggio. Dalla mungitura alla tavola, tutto in poche ore, attraverso un processo di alta qualità nel quale i vertici di Parmalat hanno voluto calare la cultura del rispetto degli animali. Così come chiedono i consumatori. La premessa del focus, però, è un’analisi dura e senza fronzoli riassunta da Giovanni Pomella, direttore generale di Parmalat. Tra il 2010 e il 2017 in Italia s’è registrata una riduzione del 20% del consumo di latte. Più o meno 550 milioni di litri in 8 anni. E il 2018 conferma la tendenza con un calo del 4%. «Le motivazioni stanno nel cambio di abitudini alimentari e sociali: dal fatto che spesso si salta la colazione in famiglia al boom della filosofia vegana. In più bisogna fronteggiare un’ingiusta demonizzazione del prodotto: c’è chi vuol far credere che consumare proteine animali è negativo, che il latte è un alimento ipercalorico da cancellare dalle diete, che è fonte di problemi legati all’intolleranza. E invece il latte è fondamentale per il nostro benessere». E a proposito di corretta informazione, come sottilinea il cavalier Giovanni Pomarico, numero uno di Megamark, re della grande distribuzione in tutto il Sud, «bisogna ridare fiducia ai consumatori». E per farlo «bisogna iniziare a fare un’informazione corretta su tutta la filiera di produzione, dalla mungitura alla diffusione del latte e dei suoi derivati». Perché, dice, «la filiera lavora senza sosta per mettere fuori i mascalzoni che rischiano di offuscare quanto di buono esiste in questo mondo fatto di gente seria, concreta e innamorata del proprio lavoro». Per Pomarico «produrre un buon latte significa creare benessere, fiducia e serenità nelle famiglie. Ma produrre un buon latte significa anche rispettare gli animali che sono nelle stalle».Ed è questo il nocciolo del focus organizzato da Parmalat, aperto agli allevatori e alla stampa, nella sede storica di Piana di Monte Verna. Qui si lavora soprattutto il prodotto made in Italy, a differenza di molti altri marchi che importano il 30% della materia prima dall’estero. L’80% del latte Parmalat è italiano, di questo il 54% arriva dal Nord, il 46% dal sud. In poche ore viene stoccato, pastorizzato, imbottigliato e spedito in tutti i punti vendita. Con un marchio di qualità e garanzia. «Ai consumatori interessa cosa c’è dietro il prodotto che acquistano», riprende Giovanni Pomella. «E noi garantiamo una produzione sostenibile nella quale il benessere delle vacche viene prima di ogni altra cosa».
Nello stabilimento Cirio Agricola alle spalle di Parmalat c’è addirittura un’area in costruzione nella quale si avvierà la raccolta del latte sulla base della filosofia della mungitura spontanea. Del resto, «se l’animale viene trattato bene produce meglio, e la bontà del latte diventa una garanzia per i consumatori».Il benessere delle vacche nelle stalle si misura secondo protocolli misteriali ed europei molti rigidi e viene verificata attraverso una serie di sopralluoghi di consulenti ed esperti che basano le loro rilevazioni incrociando anche dati storici degli ultimi 70 anni di produzione sul territorio. Per sintetizzare, si basa su 5 indicatori essenziali, tra i quali, come spiega Claudio Destro dell’Aia (associazione italiana allevatori) la longevità dell’animale, la regolarita riproduttiva, la sanità della mammella e il controllo di patologie specifiche. «Dalla comparazione dei dati viene fuori un numero a 3 cifre. Il primo rappresenta la classificazione del rischio, il secondo e il terzo gli indicatori di sufficienza e eccellenza». Le 3 cifre vanno da 0 a 5: una classificazione 500 evidentemente è del tutto negativa, una classificazione 005, invece, è la perfezione. I parametri delle aziende Campane sono incoraggianti per il 56% dei casi, quelli di Parmalat («che ha sposato il disciplinare Aia sulla sicurezza alimantare») sono ottimali. Un risultato naturale per un’azienda che già nei primi anni ‘90, come ricorda Gabriele Orzi, responsabile Milk collection Parmalat, «si poneva il problema della micotossina, dell’analisi dei mangimi, della riduzione dei farmaci nelle stalle». Oggi, continua Orzi, «è provato che il benessere degli animali comporta una diminuzione della carica batterica». Ed è anche per questo che Parmalat ci ha investito, come ha riconosciuto Gennaro Masiello di Coldiretti. «La grande distribuzione finalmente penalizza chi produce in allevamenti ipertensivi, Oggi serve la qualità e il benessere delle vacche, e qui sono un mantra per Parmalat e per gli allevatori». Diciamoci la verità, il latte è una bontà. E fa anche bene alla salute. «Berne 250 millilitri al giorno, cioè un bicchiere pieno – chiude l’endocrinologa Annamaria Colao – consente di tener sotto controllo il peso corporeo e che contribuisce al benessere fisico riducendo la sindrome metabolica contro glicemia, colesterolo».