La macchina su cui viaggia Mario Di Nola sfreccia veloce in autostrada, attraversando i paesi di provincia e costeggiando i campi di calcio costruiti a ridosso degli svincoli stradali, dove il fango si mischia alle linee bianche del centrocampo. Sui campi in erba decine di giovanissimi calciatori che sognano di sfondare e diventare famosi. Un po’ come lui prima dell’inferno, dello scandalo dell’arresto nel 2008 e delle inchieste giudiziarie e delle sentenze di un tribunale.
L’allenatore di Sant’Antonio Abate osserva gli atleti ambiziosi dal finestrino di un’auto che taglia il vento del nord che soffia forte e gelido. Ma a lui basta così. E’ il profumo della libertà, una boccata d’ossigeno dopo i sei anni passati in una cella del carcere di Udine. In quei novecento chilometri dal penitenziario del capoluogo friulano alla sua Sant’Antonio Abate è racchiusa una vita di sacrifici e di errori, tanti. Di un conto con la giustizia finalmente pagato, di una pagina che si chiude e di una macchia nell’anima che finalmente non c’è più. Un fardello sulle spalle che lo ha accompagnato per anni, anche mentre strappava successi e sognava di vincere campionati. «Devo guardare avanti», ripete in testa mentre torna a casa. E lo sguardo sui campi da calcio lungo l’autostrada è quello di chi ha ancora l’occhio “allenato” per uno sport che lo ha visto protagonista – seppur a livello dilettantistico – in Campania e in Sicilia. «Voglio ripartire, magari con il calcio. Magari una panchina», la confessione fatta agli amici più stretti sulla via del ritorno. Mario Di Nola ieri pomeriggio è tornato in Campania, a Sant’Antonio Abate, dopo aver scontato il suo conto con lo Stato. Sei anni di carcere per essere finito al centro di una vicenda forse più grande di lui, il dramma personale e l’onta di far parte di un gruppo camorristico. Fu arrestato su ordine della direzione distrettuale antimafia nel 2008, insieme ad altre due persone, e accusato di aver imposto il pizzo sul calcestruzzo e aver chiesto alcune tangenti da versare per conto del clan Fabbrocino, una delle famiglie criminali più spietate della Campania e capace di costruire un impero grazie al racket ai danni di imprenditori e commercianti di San Giuseppe Vesuviano, Ottaviano e Terzigno. Un legame pesante per l’allenatore che dopo lo scandalo e la scarcerazione decise di interrompere ogni rapporto, provando sin da allora di cambiare vita e amicizie. Il calcio lo ha tenuto lontano da certi giri fino a che non è arrivata la sentenza di condanna. Dalla panchina al carcere. Un tackle a gamba tesa per lui che aspirava a diventare un grande allenatore, di sfondare e arrivare a toccare con le mani il sogno del calcio professionistico.
Sant’Antonio Abate, Angri, Torre del Greco, Campobasso, Noto e Caserta sono le tappe di un viaggio sportivo che si è interrotto nel 2013 e che ora spera di poter riprendere. Anche ripartendo dal basso, dai campi polverosi delle categorie più basse, calpestati prima di sedere in panchina, quando da mediano tentava di farsi notare dagli osservatori di mezza Campania.
La notizia del ritorno a casa dell’allenatore di Sant’Antonio Abate è stata accolta con entusiasmo nell’ambiente sportivo. Decine di messaggi di saluto tra social network e messaggi sul cellulare, rimasto spento per troppo tempo. «Mario Di Nola è una grande persona», il commento di Ciccio Vitale che è uno dei leader della squadra di Sant’Antonio Abate, la città che lo ha consacrato come allenatore anni fa. «Non l’ho mai avuto come tecnico ma il nostro è un rapporto che va oltre il calcio». Non è l’unico messaggio di «bentornato» sul diario social del mister, rimasto chiuso per troppo tempo e su cui oggi spera di scrivere le pagine di una nuova esistenza.