di Rocco Traisci
Masochisti, depressi, paranoici, mitomani, tossici, alcolisti. Oppure vittime di intricati noir, complotti politici e delitti da fantasy passionale? Quante e chi sono le rockstar decedute prematuramente come Kurt Cobain? E soprattutto perché? Di fronte al mistero che attraversa il limbo dell’arcano e dell’occulto e si aggroviglia nei cordoli del caso giudiziario, c’è sempre un alone di soggezione ad ammettere che forse forse, in fondo in fondo, qualcosa di irrisolto ci deve pur essere. Il suicidio del leader dei Nirvana, avvenuto il 5 aprile del ’94 (di cui celebriamo i venticinque anni per ricordarne il talento), ha ispirato i best seller di due giornalisti americani, Max Wallace e Ian Alperine (il primo del ’98 Who killed Kurt Cobain e Love And Death, The Murder Of Kurt Cobain del 2004), foraggiati dall’investigatore privato Tom Grant, secondo cui Kurt Cobain fu assassinato. Grant non era un complottista. Fu ingaggiato dalla moglie di Cobain, Courtney Love, per rintracciare il marito fuggito (qualche giorno prima del ritrovamento del cadavere) dalla clinica Exodus di Marina del Rey a Los Angeles dopo un brevissimo ricovero per abuso di eroina. Le indagini parallele dei due cronisti e dell’investigatore privato costrinsero la polizia ad aprire un’inchiesta, che però si scontrò con la carenza di elementi probatori che avvalorassero la loro tesi. L’archiviazione delle indagini chiaramente aprì la spirale della leggenda, con nuovi colpi di scena che coinvolsero la stessa Courtney Love, poi scagionata dall’agghiacciante accusa di essere stata mandante del delitto. Dopo la leggenda resta la mitologia: quel corpo adagiato nella depandance del garage della villa al 171 di Lake Washington Boulevard East, a Seattle, alle 8 e 40 dell’otto aprile 1994, il fucile Remington M-11 con i colpi in canna, le Converse nere, i 120 dollari in contanti, le siringhe e i cucchiaini, la lettera d’addio infilzata nel terriccio di un vaso e il sangue sul pavimento sono cimeli di un maledetto, maledettissimo atto di disperazione, che restituisce al mito e non al complotto la fine di un genio del rock, forse l’ultimo grande innovatore dopo John Lennon. L’angoscia che ammanta la fine di Cobain non è la ricerca della verità giudiziaria. Il mito, come detto, insabbia le forzature investigative e quindi pazienza, facciamocene una ragione. L’aspetto fantastico (che va oltre il reale) è la strana coincidenza dell’età: 27 anni. Molti sanno già dove vogliamo andare a parare, ma a pensarci bene è proprio qui che la mitologia torna leggenda e la leggenda ritorna mistero. L’espressione Club 27, a cui ci riferiamo, è stata coniata nel ’94 dal giornalista Charles R. Cross, biografo di Cobain. Teorizza l’esistenza di un macabro club di rockstar morte prematuramente a 27 anni come Kurt, una lista tristemente allargatasi ad Amy Winehouse il 23 luglio del 2011. Ma chi sono gli altri soci di questo esclusivissimo club? Jim Morrison, sciamanico frontman dei Doors, fu trovato morto nella vasca da bagno della sua casa di Parigi il 3 luglio 1971. Brian Jones, fondatore dei Rolling Stones, fu stroncato nella notte tra il 2 e il 3 luglio del 1969 da un mix fatale di alcol e droghe che ne causò l’annegamento in piscina. Jimi Hendrix, il più celebre e talentuoso chitarrista della storia del rock, rimase soffocato nel proprio vomito per eccesso da barbiturici il 18 settembre 1970. Janis Joplin, regina di Woodstock, morì per overdose poche settimane dopo Hendrix, il 4 ottobre 1970. Solo una beffarda coincidenza? Un cabalistico scherzo del destino? Il club dei 27 è una straordinaria trovata giornalistica, triste parabola di un gruppo di ragazzi travolti dal successo e da un sacrificio collettivo. Niente è gratis. Se da una parte la loro sconfitta rappresenta la banalità del male e scatena l’anatema dei benpensanti di ogni tempo, dall’altra ravviva i tizzoni dormienti dell’immortalità e la sacralità della propria arte.