Dai cellulari in carcere, alla cella di Poggioreale usata come “cabina telefonica”. Dai colloqui pilotati ai delitti ordinati con un clic, passando per gli agenti corrotti e le dediche musicali per il padrino.
L’inchiesta della direzione distrettuale antimafia di Napoli che ieri ha travolto la malavita vesuviana non racconta solo la storia di una feroce guerra tra camorristi, ma anche gli agghiaccianti retroscena in cui è racchiusa la rete di connivenze e potere di cui erano capaci – a tutti i livelli – i clan negli anni bui della faida all’ombra del Vesuvio.
Intrecci clamorosi che riemergono, così come il sangue della faida, attraverso i racconti dei vari collaboratori di giustizia passati al servizio dello Stato. Secondo Vincenzo Esposito, infatti, Stefano Zeno, il boss sanguinario che si porta dietro il “record” degli ergastoli per la guerra di camorra – il padrino della cosca ha già incassato 8 condanne al carcere a vita in questi ultimi anni- aveva a disposizione un cellulare con cui parlava agli affiliati liberi quando era detenuto nel carcere di Lanciano.
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