C’è odore di caffè nell’aria che accarezza via Generale Carrascosa. È il profumo del risveglio, anche se l’orologio segna 10 minuti alle nove di sera. Qui è diverso. In un piccolo appartamento al piano terra la vita inizia quando gli altri tornano a casa, quando le luci al neon che filtrano dalle finestre degli appartamenti borghesi sembrano seguirti come occhi indiscreti. O forse lo sono. Inizia così il viaggio nella Napoli di chi è messo all’angolo. Di chi combatte con dignità contro l’indifferenza, la violenza. Una Napoli che di giorno pretende di mostrarsi “arcobaleno” ma la sera è grigia. Nera. Stefania ha gli occhi grandi e scuri e un sorriso che le illumina il volto. Quando parla sa catturare l’attenzione col suo sguardo, con quegli occhi che a tratti sembrano velati di malinconia. Stefania Zambrano compirà 32 anni tra meno di una settimana, festeggerà il compleanno quando dalle urne si inizierà ad avere il responso delle elezioni. Seguirà lo spoglio assieme a Loredana Rossi, presidente dell’Associazione trans Napoli. Sì, perché Stefania è una trans ed è candidata alla IV Municipalità a sostegno di Luigi de Magistris. Ma dietro i colori dei santini elettorali, dietro gli spot e i proclami da “città dell’accoglienza” c’è un mondo che in pochi vogliono vedere. Che troppi vogliono ignorare. Un mondo fatto di bibite energetiche per superare la stanchezza, come la Redbull che Stefania sorseggia mentre si dedica al trucco. «Ne ho bevute tre oggi ma credimi, ho ancora sonno» dice mentre delinea il contorno delle labbra con una matita rosso rubino. È seduta al tavolo della cucina, accanto a un divano su cui è distesa un’altra ragazza trans. «Lei ha 19 anni ed è siciliana. La famiglia l’ha cacciata di casa ed è mia ospite» racconta cercandola con lo sguardo. Ora che il viso è ricoperto da un velo di fondotinta e gli occhi sono illuminati dall’ombretto glitterato Stefania può vestirsi. Lo fa su un soppalco adibito a camera da letto. Lo fa indossando autoreggenti nere e un reggiseno a balconcino. Scherza, sorride mentre si mette in posa davanti all’obiettivo del fotografo. Arrotola le calze come una moderna Sophia Loren, poi scoppia a ridere quando si rivede nel riflesso dello specchio affisso al soffitto della stanza, proprio sopra il letto. «Sono una trasgressiva», dice. Venti minuti dopo le nove di sera Stefania è pronta per uscire, pronta per l’ultimo sorso di Redbull. Pronta per affrontare la notte. Già, Stefania Zambrano è costretta a prostituirsi. «Ho iniziato a 14 anni, ero poco più di una bambina. Lo facevo in piazza Garibaldi, vicino alla stazione» racconta. Le bastano pochi minuti per mettere assieme i tasselli della sua vita. Lo fa sotto gli occhi dolci di Loredana, che ha dedicato la sua esistenza alla comunità trans. «Credi che mi faccia piacere? La gente pensa che noi trans ci prostituiamo per fare soldi facili, fa comodo pensare questo» dice Stefania. Lei ci ha provato, ha cercato di costruirsi una carriera diversa. Ed era anche brava. Gestiva un centro estetico, «uno di quelli seri, avevamo anche il medico e i tecnici specializzati». Poi la crisi, nessuno che ti tende la mano e la sola e unica alternativa: la strada. La sola speranza di essere indipendente, di guadagnare qualche soldo per «pagare il pigione» diventa un rettangolo di asfalto del corso Meridionale, all’ombra dei grattacieli della “city”. Eccola la Napoli in bianco e nero, quella che di giorno mostra i colori dell’accoglienza e di notte si ferma a contrattare il prezzo di una prestazione sessuale. Ecco perché essere elette può essere la sola via d’uscita dal baratro. La strada è cattiva, pericolosa. Lo sa bene Loredana Rossi, che da anni assiste le ragazze. Il suo cellulare squilla con insistenza e lei trascorre minuti a dare conforto. Come Guendalina, 18 anni e l’incubo di finire sul marciapiede. «Non voglio scendere in strada – racconta al telefono con la voce rotta dal pianto – non voglio, piuttosto mi uccido». Anche lei vive con un’altra trans che la ospita temporaneamente. La sua storia è agghiacciante. È stata adottata e poi abbandonata. Messa alla porta nel giorno del diciottesimo compleanno. «Buttata fuori perché è un femminello» dice Loredana. Dal Centro Direzionale ad Agnano occorrono poco più di 10 minuti. Malgrado sia venerdì sera il traffico è scorrevole. Lia aspetta seduta sul suo motorino, davanti all’ippodromo. È alta, mora e indossa un tubino di jeans. Parla con voce ferma e carica di rabbia; racconta dei pericoli della strada, delle sua amiche aggredite. Ferite. «Ci prendono con le mazze da baseball oppure con gli estintori. Si avvicinano, ci insultano e poi spruzzano la polvere bianca. Ma fosse solo questo». Lia afferra la mano e la porta sul fianco sinistro. «Senti qui, riesci a sentire lo scatto». Lia ha un’anca rotta, fratturata. L’hanno presa a calci e trascinata per 10 metri tenendola per i capelli. Non per una rapina. Così, solo per il gusto di farlo. «Il lavoro? Certo che ho provato ad averne uno vero, normale. L’ho fatto qui, l’ho fatto a Milano dove per otto giorni ho camminato senza sosta, consumando le suole delle scarpe da ginnastica. Ho portato curricula ovunque. La risposta? Sempre la stessa: “Siamo al completo”. A noi trans non ci vuole nessuno, facciamo comodo qui. Abbandonate al nostro destino su un marciapiede, prede della violenza e della barbarie». Chiede di non essere ripresa in volto, poi si apre in un sorriso. Lo stesso sorriso luminoso di Stefania: «Lo sai? Anche io sono candidata. Lia Criscuolo, non ho problemi a dire il mio nome. Lo faccio perché voglio che tutto questo finisca. Finisca per me e per tante altre ragazze».
politica
1 giugno 2016
Napoli. Le trans candidate: “In campo per sfuggire dal marciapiede”