Tutti i dipendenti che chiudono un rapporto di lavoro con un’azienda o con una società perché dimissionari, licenziati o andati in pensioni, hanno diritto al Tfr, il trattamento di fine rapporto. Si tratta di una porzione della retribuzione accantonata dal datore di lavoro (di norma l’equivalente a una mensilità ogni anno), che verrà corrisposta al dipendente al momento della risoluzione del contratto.
Come ricorda il portale ‘laleggepertutti.it’, sin dall’inizio il lavoratore ha la possibilità di lasciare la propria quota di Tfr in azienda o di investirla in un fondo di previdenza complementare. Ha anche la facoltà, dopo otto anni di servizio, di chiedere un anticipo fino al 70% per spese sanitarie straordinarie o per l’acquisto o la ristrutturazione della prima casa, purché tutto venga debitamente documentato. Il Tfr viene rivalutato al 31 dicembre di ogni anno, con l’applicazione di un tasso costituito dall’1,5% in misura fissa e dal 75% in base all’aumento dell’indice dei prezzi al consumo accertato dall’Istat rispetto alla stessa data dell’anno precedente.
Individuato l’importo lordo del Tfr, cioè la somma delle porzioni di retribuzione accantonate e rivalutate ogni anno di servizio del dipendente, è possibile arrivare al calcolo dell’importo netto. Il datore di lavoro, in quanto sostituto d’imposta, deve stabilire la base imponibile attraverso la somma degli accantonamenti annuali rivalutati, il reddito di riferimento e l’aliquota media di tassazione. Infine, dovrà calcolare l’Irpef. Successivamente scenderà in campo l’Agenzia delle Entrate per ricalcolare l’imposta sulla base dell’aliquota media relativa alla dichiarazione dei redditi presentata dal lavoratore negli ultimi 5 anni.
Il Tfr è soggetto al regime di tassazione separata disciplinata dal Testo Unico delle Imposte sui Redditi. L’aliquota applicata per il calcolo del Tfr netto non è quella dell’anno in cui viene risolto il rapporto di lavoro, ma un’aliquota media che tiene conto sia del numero di anni e frazioni di anni di anzianità del dipendente, sia delle aliquote Irpef relative agli anni lavorati. Così facendo, la tassazione del Tfr sarà inferiore rispetto a quella che risulterebbe applicando l’aliquota dell’anno in cui il Tfr viene incassato.
Nel calcolo della tassazione del Tfr ha un ruolo anche l’Agenzia delle Entrate, la quale ricalcola l’imposta sulla base dell’aliquota media degli ultimi cinque anni di servizio. Se l’importo è superiore, l’Agenzia chiede la differenza al dipendente. Anziché lasciarlo in azienda, alle condizioni che abbiamo appena visto, il Tfr può essere anche investito in un fondo di previdenza complementare come, ad esempio, un fondo pensionistico.
In questo caso, dal punto di vista della tassazione, è possibile dedurre dal reddito complessivo Irpef le somme versate dal lavoratore e dal datore di lavoro fino ad un massimo di 5.164,57 euro. Purtroppo la tassazione del rendimento finale di una forma di previdenza complementare è stata quasi raddoppiata nel 2015: dall’11% è passata al 20% sul 62,5% del rendimento che deriva dall’investimento in Titoli di Stato. Inoltre, è salita dall’11% al 17% la tassazione sulle rivalutazioni dei fondi Tfr effettuate dal 1 gennaio 2015.
Fino al mese di giugno 2018, in via sperimentale, è possibile chiedere al datore di lavoro di versare il Tfr non in un accantonamento in azienda o in un fondo di previdenza complementare ma direttamente in busta paga. Un’arma a doppio taglio: se è vero che lo stipendio è più consistente, alla fine del rapporto di lavoro non ci sarà più la liquidazione.
Sta al lavoratore valutare se il vantaggio di avere ogni mese una retribuzione maggiore per far fronte alle incombenze più immediate compensa il sistema di tassazione applicato a quei soldi, che non sono più investiti e rivalutabili ma pagati subito. Bisogna considerare, quindi, che la parte di Tfr in busta paga fa reddito da lavoro e pertanto non avrà più una tassazione separata ma una tassazione ordinaria, più alta della prima.