Il duplice omicidio di Fulvio Montanino e Claudio Salierno fu ordinato da una cella del Tribunale di Napoli mentre era in corso uno dei processi al gotha dell’allora clan Di Lauro. E, a trasmettere la direttiva agli affiliati in libertà, furono gli imputati Rosario Pariante, Raffaele e Francesco Abbinante. Ieri pomeriggio i giudici della seconda sezione della Corte d’Assise d’Appello di Napoli hanno blindato questa ricostruzione storica dell’agguato che aprì la prima faida di Scampia e Secondigliano confermando le condanne all’ergastolo stabilite in primo grado nei confronti dei tre imputati che scelsero ed ottennero di essere processati col rito abbreviato. Carcere a vita per Raffaele Abbinante e per il figlio Francesco. Carcere a vita anche per Vincenzo Pariante (nella foto), il fratello del boss Rosario, che si occupò di raccogliere l’imbasciata e riportarla ai capi della scissione. Quindici anni di reclusione, invece, sono stati sentenziati per Rosario Pariante, l’uomo che – mediante una serie di gesti – indicò ad Arcangelo Abete – tra il pubblico – che Fulvio Montanino, braccio destro di Cosimo – sarebbe dovuto morire: la pena, già stabilita in primo grado, è stata più contenuta perché a Pariante sono state confermate le speciali attenuanti previste dalla legge per i collaboratori di giustizia.
Dal processo per l’omicidio Montanino-Salierno esce pulito, come prevedibile, il solo Lucio Carriola (difeso dagli avvocati Luigi Senese ed Emilia Granata), imputato per una condotta di favoreggiamento aggravata dalla matrice camorristica per aver agito al fine di agevolare gli Amato-Pagano. In primo grado il giudice per le indagini preliminari Amelia Primavera del Tribunale di Napoli inflisse a Carriola tre anni e quattro mesi ritenendolo colpevole di aver bruciato gli abiti del killer. Ma quella decisione, s’è scoperto pochi mesi fa, era sbagliata: il neo pentito Antonio Caiazza, al secolo nel gruppo di fuoco del sodalizio, ha spiegato in aula che i vestiti del commando furono inceneriti da lui e da Carmine Pagano, nipote del padrino Cesare. Un’ammissione che a giugno spinse il sostituto procuratore generale a invocare l’assoluzione per Carriola e che ieri ha condotto la Corte nella stessa direzione del rappresentante della pubblica accusa. Si chiude così un primo filone processuale sull’agguato dell’ottobre del 2004 al Terzo Mondo che inaugurò una stagione di sangue e di terrore (quasi) senza precedenti. Altri boss degli Amato-pagano sono invece imputati dinanzi ai giudici della quarta sezione della Corte d’Assise di Napoli, alcuni hanno anche ammesso gli addebiti, confidando di strappare una condanna a 30 anni anziché quella al carcere a vita. Il dibattimento è giunto alle battute conclusive e il prossimo mese il pubblico ministero Stefania Castaldi, che ha coordinato l’indagine, tirerà le sue conclusioni.