Nei vicoli della miseria il tempo corre veloce. Le ragazze sembrano già donne e i bambini crescono in fetta. Chi è fortunato trova un lavoro e si “arrangia” tirando a campare. Chi non lo è sulla sua strada trova un boss con una catena d’oro che promette soldi facili. Alla camorra non interessa la carta d’identità. Tutti possono essere utili alla causa del clan. Anche un ragazzino di 13 anni.
E’ la storia delle “paranze” di Napoli, dei baby-boss dei Quartieri. Ma è anche la storia dell’affiliato-bambino, al secolo Marco Cefariello, capoclan pentito dei Birra-Iacomino. Tra qualche mese l’ex rampollo della camorra vesuviana compirà 31 anni. Eppure, alle sue spalle c’è una vita intera. Una vita spesa al servizio della camorra.
Una storia che Cefariello – dopo 2 anni da sepolto vivo vissuti in un carcere di massima sicurezza al 41bis – ha deciso di raccontare ai magistrati dell’Antimafia.
Da meno di un anno è diventato un collaboratore di giustizia, ma i suoi primi verbali da pentito sono stati acquisiti – nei mesi scorsi – agli atti di un processo che vede imputate 21 persone (tutte ritenute vicine alla camorra di Ercolano e Torre del Greco).
Per il clan Cefariello ha fatto di tutto: estorsioni, agguati, rapine. A 22 anni era già uno dei boss più temuti e rispettati della malavita vesuviana. Fare il suo nome, nei vicoli di Pugliano, faceva tremare le ginocchia.
Ma davanti al pubblico ministero Sergio Ferrigno – quando si apre il verbale datato aprile 2016 – quel ragazzo spaccone con il colpo in canna non c’è più. «Ho deciso di collaborare con la giustizia per salvarmi da questa vita scellerata», ripete Cefariello spiegando agli uomini dell’Antimafia perché ha voltato le spalle alla camorra. «L’ho fatto per dare un futuro migliore ai miei figli e a mia moglie», il copione comune a tanti pentiti recitato con convinzione davanti al magistrato.
Dei suoi 31 anni Cefariello ne ha spesi almeno 18 al servizio di Giovanni Birra e Stefano Zeno, i due padrini fondatori della cosca di corso Resina.
«Sono stato un affiliato fin da quando ero minorenne – il racconto di Cefariello – era il 1999 quando entrai nel clan Birra-Iacomino». Il boss classe 1986 aveva 13 anni quando decise di sancire il suo patto di sangue con la camorra.
Sulla carta doveva essere a scuola, in realtà era in strada a sparare e raccogliere le estorsioni. In quegli anni Ercolano era una polveriera. E nella faida di camorra più sanguinaria della storia vesuviana morivano anche i ragazzini.
Una possibilità che però non ha spaventato il baby boss della camorra di Ercolano. Da quel momento Cefariello ha iniziato la sua scalata nelle gerarchie della cosca. «Sono stato un reggente del clan fino al 2009 – le parole del super pentito – anche se non percepisco una remunerazione. Ma non ho mai commesso omicidi per il clan a cui ero affiliato».
Nel suo racconto – incentrato sulla ricostruzione dei ruoli di alcuni personaggi a processo – il collaboratore di giustizia ripercorre in parte la sua carriera. Finendo con il dire che oggi i Birra non esistono più: sono scomparsi tra arresti, pentimenti e condanne.
Il baby boss che ha guidato il clan negli anni della faida – gestendo anche i legami con gli alleati del clan Gionta di Torre Annunziata – racconta la guerra di camorra con gli Ascione-Papale. «Volevano far scendere in strada 100 uomini per sterminarci tutti», racconta il super pentito puntando il dito i boss della cosca con base e interessi anche a Torre del Greco.
Poche frasi ma lapidarie. Poche parole per ricostruire una vita intera. Una vita spesa al servizio della camorra.