La fama del “modello-Ercolano” si è diffusa, durante gli anni, in tutta Europa. All’ombra degli Scavi sono arrivati studenti da ogni angolo del continente per osservare con i propri occhi un fenomeno unico al Sud Italia: una città in cui il coraggio di decine di imprenditori e commercianti – unito al sostegno dello Stato e alle iniziative promosse dalle associazioni anti-racket del territorio – ha demolito il muro di omertà dietro cui si nascondevano boss e gregari dei sanguinari clan in guerra per la gestione dell’affare-pizzo.
Messi spalle al muro da chi si è ribellato alla “legge della camorra” padrini e fiancheggiatori sono finiti, uno dietro l’altro, in carcere: le casse delle cosche si sono lentamente svuotate, spalancando così le porte al pentimento di sessanta ex soldati della malavita organizzata. Un circuito virtuoso alimentato dalla sinergie delle istituzioni, ma nato proprio dalla presa di coscienza delle vittime dei signori del pizzo. Il “modello-Ercolano” ha fatto scuola e – a partire dalla prima metà degli anni Duemila – si è trasformato in un punto di (ri)partenza per imprenditori e commercianti di decine di città del Sud Italia stritolate da ‘ndrangheta e mafia.
Un esempio, tuttavia, ignorato proprio da chi vive a due passi dalla città-simbolo della guerra al racket. In provincia di Napoli, le denunce per pizzo – in ogni singola città – si contano sulla punta delle dita di una mano. E in città storicamente di frontiera la mano neanche serve.
Castellammare
La recente scarcerazione di diversi pezzi da Novanta dei Cesarano – il clan con quartier generale a Ponte Persica, al confine con Pompei – ha fatto alzare nuovamente il livello d’allarme nella città delle acque. Dove, in realtà, i segnali inquietanti non mancano già da anni. Basti pensare alla bomba carta piazzata davanti al supermercato Sole 365 (febbraio 2015) o al recente – gennaio 2017 – raid esplosivo a una pescheria di piazza Matteotti), passando per l’avvertimento a colpi di pistola del novembre 2015 contro l’ex titolare della Locanda della Pasta di via Panoramica: la vittima negò agli investigatori di avere subito richieste estorsive, salvo poi cedere l’avviata attività. Un comportamento in linea con le “abitudini” di commercianti e imprenditori di Castellammare, al punto che – in un anno – le forze dell’ordine del territorio non hanno raccolto neanche una sola denuncia per racket. Un assordante silenzio spezzato solo dai boati degli ordigni con cui i clan continuano a portare avanti, indisturbati, la strategia del terrore finalizzata all’imposizione del pizzo.
Torre del Greco
All’ombra del Vesuvio si vive, complice la valanga di arresti capace di decapitare lo storico clan Falanga e gli scissionisti del rione Sangennariello, un periodo di apparente tranquillità. Apparente, perché in circolazione restano diversi “cani sciolti” pronti a tentare la scalata per colmare il vuoto di potere lasciato dai padrini finiti in cella o ammazzati durante gli anni della faida. Ma, a differenza di Castellammare, qualche denuncia è arrivata alle forze dell’ordine: due o tre segnalazioni capaci di innescare le indagini e fare scattare gli arresti. Il “modello-Ercolano” resta lontano, ma qualche segnale di ribellione – complice la crisi economica – si intravede dopo anni di silenzio.
Torre Annunziata
Nell’ex fortino del clan Gionta sono le nuove leve a dare i maggiori problemi. Gli aspiranti boss non esitano a imbracciare le armi per lanciare messaggi ai rivali e – al tempo stesso – contendere il controllo del territorio ai fedelissimi delle cosche smantellate dagli arresti: come a Napoli, sono spuntante nuovamente le “stese” nei rioni e non sono mancati gli attentati esplosivi ai danni di attività commerciali. Ma, esattamente come a Castellammare, nessuno ha bussato alla porta di carabinieri o polizia per provare a incastrare i signori del pizzo. La casella delle denunce per racket resta bianca, perché a Fortapàsc regna ancora la paura.