Il tempo non asciuga le lacrime, né fa sparire le cicatrici sul cuore. Settimana Santa e della memoria, perché pure il calendario quest’anno gioca a calcio con il destino: 16 aprile, sarà domenica di Pasqua, proprio come nel 2006, quando Catello Mari perse la vita in un tragico incidente, all’ingresso di Castellammare di Stabia, trasformando in pianto la gioia per il trionfo della sua Cavese ch’era stata appena promossa in serie C1. Una data ch’è un tormento, alleviato soltanto da un puzzle d’orgogliosi ricordi da custodire.
Il «benefattore»
Giuseppe Mari, ufficiale dei carabinieri e papà per il quale da 11 anni nulla è più come prima, rivela un aneddoto che conoscono in pochi. «Era la notte della sepoltura di mio figlio, pioveva a dirotto. All’ingresso del cimitero incontrai un ragazzo, mi sembrava un fantasma. Ero sotto shock, però nel vederlo lì da solo, alle quattro del mattino, mi fermai per capire cosa stesse facendo. “Sono un tifoso della Cavese, sono venuto a portare un telo sulla tomba di Catello”, mi disse. E quando gli chiesi il perché, mi stupì ancora di più. “L’ho fatto perché non si bagnasse… Lei non sa, comandante, che io sono sposato ed ho un bambino, ma non lavoro. Ogni mese, suo figlio mi pagava fino a 300 euro di spesa. Aveva preso a cuore la mia storia, voleva aiutarmi”. È un esempio, come ce ne sono tanti altri, che descrive chi fosse davvero Catello. Un benefattore», racconta il padre con la voce ancora rotta dall’emozione. Singhiozza e si commuove, Giuseppe Mari. In un flusso di coscienza ch’è un viaggio d’un’umanità, alla scoperta d’un ragazzo speciale non soltanto per sterile e consumato “modo di dire”.
Amico degli sconosciuti
Al diavolo la retorica, regina spesso convenzionale di troppe commemorazioni. La vita di Catello è fatta d’opere vere. Pure fuori da quel campo di calcio dove si conquistò il soprannome di “Leone”. «Quando giocava ad Angri iniziò ad accudire una coppia d’anziani che abitava a pochi metri dallo stadio Novi – continua il papà -. “Cosa volete mangiare oggi?”, gli chiedeva prima d’ogni allenamento. Prendeva le ordinazioni e gli inviava il pranzo. Gerardo Alfano, suo amico e compagno ai tempi di quella super-Cavese, mi raccontò poi le soste in autogrill, di ritorno dalle trasferte. Mio figlio vedeva ragazzi “pericolosi”, dalle facce sospette, magari tossicodipendenti: si fermava e gli regalava 10 euro. E a chi gli diceva che quei soldi sarebbero probabilmente serviti a comprare droga, lui rispondeva “sì, forse è vero, però almeno non ruberanno né faranno del male a qualcuno qui sull’area di sosta”. Era fatto così, talmente buono da non sembrare uno di questo mondo».
Memoria viva
Nulla accade per caso, e infatti pure 11 anni dopo quella Pasqua “maledetta” il ricordo di Mari è sopravvissuto al trascorrere del tempo, ch’è solito logorare tutto. Gli hanno intitolato sale operatorie all’ospedale pediatrico Gaslini di Genova e luoghi-simbolo dello sport, su tutti la Curva Sud degli ultras della Cavese («sarebbe stato ingiusto dedicargli l’intero stadio, perché porta il nome di Simonetta Lamberti, figlia d’un giudice, una bambina uccisa dalla camorra di cui non bisognerà mai dimenticare il sacrificio», parola del padre di Catello). Ogni anno, poi, tifoserie che in passato non s’erano amate, eufemismo per non dir altro, come quelle di Castellammare e Cava de’ Tirreni, si ritrovano per onorarne la memoria. «Dall’Altare, nel giorno del trigesimo, dissi ad alta voce d’aver conosciuto poco mio figlio durante la sua vita troppo breve. Però lo sto conoscendo dopo la sua morte, grazie al racconto di tante persone, e così lui continua a camminare sempre al mio fianco», la certezza del papà che domani sera, dopo la Santa Messa al Duomo della città metelliana, parteciperà alla presentazione del libro sul “Leone” blufoncé, scritto da Fabrizio Prisco. Perché ci sono cose che non tornano più, e altre che non se ne andranno mai via: proprio come la vita e il ricordo di Catello Mari.