Guardare Francesca Guida negli occhi era come perdersi in questo mare blu che si apre dietro l’inferno di macerie. E scriverne è dura per chi l’ha conosciuta. Le parole stentano a venir fuori e il pensiero per chi non c’è più è un chiodo che batte in testa mentre la luna tonda e nitida cala sull’orizzonte per far spazio all’alba che illumina di nuovo il golfo. La vita e la morte. Chi ha trepidato davanti alle macerie per 24 ore ha gli occhi gonfi, ha sperato ogni minuto di poter liberare quel fragoroso applauso che sale quando gli eroi in divisa strappano una vita dalle macerie. Invece Niente. Nessun miracolo. Il crollo sulla Rampa Nunziante ha restituito solo otto sacchi neri. Ora sfogliare le foto di Francesca fa più male di ieri. E fa ancora più male scorgere i giochi del suo fratellino Salvatore, otto anni appena, tra i detriti sotto i quali è rimasto seppellito. Guardarli ti fa sentire colpevole di esserci ancora su questo mondo. Impotente. Inutile. Tu ci sei. Salvatore non c’è più. Dopo la notte dello strazio e dei corpi portati via nelle ambulanze, l’immagine che ti ritrovi davanti stride tra l’inferno della palazzina e il paradiso del golfo e il sole ora illumina impietoso ciò che prima non hai osservato con attenzione. Un telefono, i mobili intatti, i quadri ancora attaccati al muro e quelli finiti giù ingoiati dalla polvere, un orsacchiotto, qualche pennarello, indumenti, libri di scuola. Magari quelli sui quali ha studiato Kikka per l’esame di terza media che ha superato brillantemente tra i banchi della scuola Alfieri. E allora resti fermo. Fermo davanti alle scene di vita quotidiana dei loro genitori Anna Duraccio e Pasquale Guida. E rifletti su un destino crudele che non guarda in faccia nessuno, nemmeno due ragazzi perbene che si sudavano la vita per regalarne una migliore ai loro bambini. Anna, stella polare di casa; Pasquale, un cuore immenso fin da quand’era un ragazzino con la sciarpa del Savoia al collo, gonfio di orgoglio sui gradini della curva del Giraud, mani verso il cielo e spalle al pallone, come ogni ultrà che si rispetti, ovviamente. I suoi amici sono ancora tutti qui. Hanno scavato a mani nude e raccontano di un destino infame: tra una settimana, Pasquale sarebbe andato via, e invece la morte gli è piombata in casa, falciando la sua famiglia per intero. Sulle pietre dell’orrore adesso ci sono i sigilli chiesti dalla Procura per cristallizzare l’inferno e avviare le perizie utili all’inchiesta per omicidio plurimo e disastro colposo, e nel silenzio surreale di una città normalmente chiassosa risalire con lo sguardo la palazzina sventrata e maledetta è come guardare dentro ogni vita spazzata via. Ti accorgi che il lenzuolo bianco battuto dal vento ancora fa ombra sul terrazzo dei Cuccurullo. Da lì c’è una vista mozzafiato su una delle tante cartoline che Torre Annunziata ancora sa offrire nonostante trent’anni di abbandono e degrado. Giacomo, che ironia della sorte era l’esperto comunale di edilizia privata, s’era costruito un angolo di paradiso in cima al suo castello usando tubolari in ferro in attesa della ristrutturazione che gli frullava in testa. Anche scrivere di lui è dura per chi l’ha conosciuto, per chi è passato nel suo ufficio a chiedere documenti e conferme di notizie da pubblicare, quando ancora si sperava di poter cambiare il destino di questa città. Nel suo angolo di paradiso son rimaste le sdraio in legno intatte che guardano la costiera e Capri, i cuscini bianchi scampati alla polvere e quei fiori viola che incuranti dell’odore acre della morte si sono riaperti in quello che adesso sembra un beffardo ciclo della vita. Senza sosta. Come la luna che cala all’orizzonte. Come il sole che risorge. Se Marco, il ragazzo degli effetti speciali della movida torrese, avesse tardato qualche minuto dopo la lunga serata di musica, non sarebbe rimasto sotto le macerie come il padre. E se avesse scelto di godersi la notte sotto il gazebo fai-da-te avrebbe beffato il destino amaro che gli aveva dato appuntamento alle 6.30 in punto. Invece Marco s’era appena sdraiato sul letto, ed è così che l’hanno ritrovato. Senza un graffio sul viso, col pugno chiuso come se avesse tentato di scavarsi attorno nel disperato tentativo di trovare un filo d’aria. Adele era accanto a lui, come lo è sempre stata nella vita: madre presente, sindacalista tosta, nonostante lo sguardo dolce e i modi eleganti. Quando i cani hanno cominciato ad agitarsi sulle macerie un metro più sotto c’era lei, ma alle cinque del pomeriggio era già troppo tardi per trovare vivi i dispersi. In fondo lo si era capito da subito, perché un palazzo in muratura che si sbriciola non crea camere d’aria salva-vita. Ed è stato così. Un inferno che ha inghiottito tutti, anche Giuseppina, la maga delle camicie che aveva 61 anni e viveva sola. Di lei parla Salvatore Iorio, il pescatore che ha visto crollare la sua storia dal mare, mentre era in barca a preparare le esche. «Sono sopravvissuto a una tragedia immane, che senso ha se Dio s’è preso tre ragazzi con una vita davanti?». Già, Dio. Che qui sembra non esserci mai passato, se non nelle preghiere delle nonne di Kikka e Salvatore che hanno continuato a sgranare per ore il Rosario della speranza. No, Dio stavolta non è arrivato nell’inferno di Torre Annunziata. Stavolta i buoni hanno perso. E adesso la Procura dovrà dirci perché.
CRONACA
8 luglio 2017
KIKKA, MARCO, SALVATORE E GLI ALTRI MARTIRI TRA L’INFERNO E IL PARADISO