“Stanotte ho sognato di avere ancora le mani. L’unica cosa che mi aspetto ora è continuare ad avere la forza di questi giorni per andare avanti”. Terzo piano dell’ospedale Pellegrini di Napoli, stanza numero 8. L’infermiere Marco ha appena consegnato a Vincenzo De Santis il foglio di dimissioni. L’operaio 38enne di Torre Annunziata che ha perso entrambe le mani, tranciate da un macchinario mentre lavorava in una fabbrica di Scafati, torna a casa. “La prima cosa che voglio fare è abbracciare mia mamma, non le ho detto che esco dall’ospedale. Sarà una sorpresa e sono certo che domenica mi cucinerà spaghetti con le cozze e frittura di pesce” dice Enzo trattenendo le lacrime ripensando a sua madre che ebbe un malore appena saputo dell’incidente e a suo padre disabile. Cerca con gli occhi la moglie Ida che con lo sguardo non lo lascia un attimo, tranne quando si commuove, allora si gira dall’altra parte, perché vuole che Enzo la veda sempre forte. “Se non fosse stato per lei non so se ce l’avrei fatta. Quando i medici mi hanno detto che dopo l’operazione per ricucirmi le mani, il sangue non circolava e perciò dovevano togliermele di nuovo, l’unica cosa che mi ha aiutato a reagire e non andare in depressione è stato pensare che le mie mani d’ora in poi sarebbero state le braccia di mia moglie”. Il calvario di Enzo per riavere gli arti sarà lungo, ma lui è fiducioso “i medici mi hanno dato la loro parola”, ripete più volte. Prima le protesi biomeccaniche poi appena sarà possibile il trapianto da un donatore, cosa che anche burocraticamente non sarà semplice. “In Italia non esiste una lista, ce n’è solo una fatta da medici italiani a Lione” spiega Enzo. “No, anche una a Parigi” lo corregge Ida, che non smette mai di rafforzare la speranza. Enzo fa lo stesso con lei cercando di sdrammatizzare con qualche battuta. Il suo volto diventa scuro solo quando con la mente ritorna a quel maledetto giorno in fabbrica. “Ricordarlo mi fa stare male come se fosse successo ieri, mi cambia l’umore, ma voglio farlo perché non ho niente da nascondere, nemmeno queste” dice mostrando le sue braccia ancora avvolte nella garza. “Sono rimasto lucido per tutto il tempo, ho impresso ogni singolo attimo”. Enzo racconta e sembra quasi di esserci. “Quel giorno avevo il turno dalle 6 del mattino alle 14. Fino alle 7 e 20 ero solo in fabbrica, se l’incidente fosse successo allora sarei morto dissanguato”. Stava per tagliare una lastra d’alluminio quando il macchinario si è inceppato. “Non era la prima volta, è una macchina vecchia di 17 anni, senza le sicurezze, i controlli non vengono effettuati periodicamente. L’avevamo già fatto notare all’ingegnere, ma vedendo che manualmente riuscivamo a sbloccarla ed andare avanti col lavoro, trascurava sempre il problema, ora probabilmente non lo farà più”. Ora che per 7 euro all’ora, 56 al giorno, Enzo non ha più le mani. “Avevo un paletto, all’improvviso il banco mi ha schiacciato la mano, d’istinto ho cercato di tirare via il polso e invece mi ha stracciato le dita anche dell’altra mano”. Un operaio di fronte a lui sviene, gli altri lo stendono su una panchina, si tolgono i lacci delle scarpe per fermargli l’emorragia. Poi prendono le mani e le infilano in una busta piena di ghiaccio. “I miei colleghi sono stati grandiosi” dice Enzo che con Ida non smette mai di ringraziare loro, “ma anche tutti i medici, gli infermieri, i parenti come lo zio Michele e tutti quelli che ci sono stati vicini”. Una corsa contro il tempo con l’arrivo in elicottero dall’ospedale di Nocera Inferiore al Cardarelli: “Qui non avevano una barella per trasportarmi al Pellegrini, quei medici bravissimi sono costretti a lavorare come se stessero in Africa, assurdo”. Poi l’intervento di 10 ore e 34 minuti con la super equipe di 8 medici, con il noto chirurgo Armando Fonzoni in testa. Dopo nemmeno un giorno la gioia va in frantumi: Enzo ritorna sotto i ferri per tre ore per rimuovere le mani. “Sono stato malissimo, anche ieri notte ho pianto, sono umano”. Mentre lo dice la sua dignità è tanta che sembra non appartenere a questo mondo. “In questi giorni in ospedale ho sognato mio nipote Pierluigi che mi batteva le mani sul viso”. Trattiene ancora le lacrime l’operaio andato a scuola ai Salesiani, cresciuto nel vicoletto che al contrario delle sorelle non ha mai voluto lasciare Torre Annunziata, tranne a 17 anni quando ha fatto per 36 mesi il bersagliere a Sarajevo e in Albania. “Forse mi ha aiutato anche quello, non lo so. Ora vorrei solo regalare la mia testimonianza negli ospedali a chi si troverà senza arti come me”.
CRONACA
6 agosto 2017
Vincenzo torna a casa e racconta il suo inferno: “Così ho perso le mani in fabbrica”