Insulti, manifestazioni di giubilo, dichiarazioni soddisfatte di chi è convinto che il ora mondo sia un posto più pulito. La morte di Totò Riina, detto “la Belva”, ha suscitato una miscela di emozioni assolutamente comprensibili, ma quel che è venuto fuori non è un cocktail che ci può dissetare dal legittimo desiderio di giustizia. È, piuttosto, un intruglio dal gusto amarognolo che serve solo ad appagare un sentimento di vendetta, anche questo comprensibile, senza però che la lotta alla mafia compia un solo millimetro in avanti. Il compiacimento per l’uscita di scena del capo dei capi di Cosa Nostra conferma che c’è un equivoco che ruota da sempre attorno attorno ai boss della criminalità organizzata. Un equivoco alimentato da un lato dalla retorica antimafia che separa con l’ascia i buoni dai cattivi, e dall’altro dalla malafede di quanti trovano molto più comodo intestare ad un solo uomo tutto il male che oggettivamente un uomo solo non potrebbe mai produrre. D’accordo: Riina ha ucciso e fatto uccidere, si è macchiato di delitti orrendi, ha insanguinato le strade di Palermo e della Sicilia come mai era accaduto prima. Però è necessario porsi qualche domanda: è possibile che abbia fatto tutto da solo (insieme ai suoi scagnozzi, s’intende)? È possibile che, per quanto feroce e sanguinario, sia riuscito a tenere sotto scacco una città intera o ad essere più potente dello Stato? No, non può essere andata così. La retorica dell’antimafia e la necessità di trovare un mostro al quale addossare tutte le colpe hanno contribuito a fomentare l’equivoco anche sulla dipartita del boss: con “la Belva” non sparisce la mafia, ma si scioglie solo la punta di un iceberg perché Riina era (o è sempre stato) solo un uomo-simbolo la cui pericolosità era stata abbondantemente disinnescata dagli anni di galera e da un fisico minato dalle malattie.
Quel che sopravvive, e continua a godere di ottima salute, è invece la ragnatela di alleanze che aveva consentito a Riina di diventare Riina; ovvero quella spesso invisibile ma larga fetta di complicità assolutamente indispensabile per trasformare una banda di criminali in una holding in grado di fatturare centinaia di miliardi e inquinare ogni segmento della vita pubblica e dell’economia legale. Le mafie, tutte le mafie, vogliono fare i soldi e non la guerra; e per fare i soldi hanno bisogno di sponde nella politica, nella finanza, nell’imprenditoria, nel mondo delle professioni, nella pubblica amministrazione, tra i semplici cittadni. Attribuire a Riina, o ai suoi omologhi della camorra e della ‘ndrangheta, tutto il male possibile significa non aver ancora compreso che per quanto feroci i boss non sono che una componente, indubbiamente fondamentale, di un meccanismo assai più complesso. Dunque, chi vuole, può anche festeggiare morte della “Belva”, ma non deve incorrere nell’errore di pensare che dentro la sua bara verrà inchiodata pure una parte di Cosa Nostra. La parte dell’iceberg che è sotto la superficie del mare, infatti, continuerà ad ingrossarsi lontano dagli occhi di chi cade nella trappola di farsi distrarre dai simboli del male come Riina. Quasi certamente, c’è da giurarci, le stesse reazioni si registreranno quando passerà a miglior vita Raffaele Cutolo, famigerato capo della Nuova camorra organizzata: ma cosa sarebbe stato Cutolo senza la vergognosa trattativa per la liberazione dell’assessore Cirillo e senza la rete di protezione fatta di ministri senatori, deputati e sindaci della provincia di Napoli?
Un’ultima annotazione: ad Ercolano sono apparsi manifesti funebri di Totò Riina nei quali a nome di Falcone e Borsellino, e di tante altre vittime, si dava la “lieta notizia” della scomparsa del criminale corleonese. Un gesto inutilmente demagogico: che senso ha attaccare i boss quando sono morti? Il coraggio civile bisogna metterlo in campo quando questi criminali sono vivi, a Ercolano come altrove.