Tra le varie novità, introdotte nel mese di agosto nel diritto penale e nel processo, ve n’è una che ha allungato inaccettabilmente i termini di prescrizione di tutti i reati. Più di qualche lettore ne ha avuto, forse, notizia e si sarà chiesto cosa debba intendersi per prescrizione del reato e se la dilatazione del tempo ad essa necessario sia da considerare un bene, rafforzando l’esigenze di tutela della collettività, o un male, prolungando nel tempo la persecuzione giudiziaria di un cittadino accusato. E’ bene subito premettere che lo Stato esercita, nell’interesse dell’intera comunità, la potestà punitiva, assoggettando alla pena prevista quei cittadini, riconosciuti colpevoli di reati. Nell’adempiere a tale irrinunziabile funzione, dispone di un tempo, entro il quale concludere l’accertamento delle responsabilità. Se tale tempo si consuma per intero e la verifica non s’è completata deve desistere e dichiarare la prescrizione, la conseguente estinzione del reato e la rinunzia alla pena. I tempi di prescrizione, previsti prima della recente riforma, erano già inaccettabilmente lunghi Almeno sette anni e mezzo per i reati meno gravi e 15, 20,30 o 40 anni per quelli più gravi, tra i quali taluni imprescrittibili. Tempi, peraltro, ulteriormente allungabili per la sospensione della prescrizione conseguente ad ogni differimento ascrivibile ad iniziative dell’imputato o del suo difensore. Chiariti in cosa consista la prescrizione del reato e quali ne siano i tempi è forse utile precisare a quali principi l’istituto obbedisca. Innanzitutto, tutela il diritto di difesa, il cui esercizio si fa tanto più difficile, sino a divenire impossibile, quanto più ci si allontana dall’epoca del fatto addebitato, per la difficoltà di reperire documenti, rintracciare testimoni, rinvenire prove o anche soltanto ricordare cosa si sia fatto quel giorno e se si disponga di un alibi. In secondo luogo, garantisce l’obbligo di cessazione di una tortura, giacché, come insegnava Carnelutti, il processo è già una pena – lo ha sperimentato chiunque, soprattutto se innocente, vi sia stato sottoposto – e tale pena non può essere eterna, giacché lo Stato che si trasforma in carnefice non tutela la collettività, ma opprime i cittadini. Infine, dovrebbe rendere morale, e non un atto di mera vendetta, l’applicazione della pena, cui assoggettare il reo in tempi ravvicinati al suo reato, e non più quando, trascorsi molti anni, egli è ormai un uomo diverso da quello che sbagliò. Quale giustificazione morale può avere la punizione di un uomo più che cinquantenne per una colpa, della quale si macchiò a poco più di venti anni, e quando profonde trasformazioni, morali e personali, sono intervenute in lui e senza attribuire ad esse alcun significato? Il Legislatore, invece, ansioso di offrire risposte effimere ad una vociante piazza giustizialista, invocante solo sanzioni esemplari e nessuna misura di prevenzione dei crimini, ha allungato i già lunghissimi tempi di prescrizione di tre anni per tutti i reati, sospendendo il termine per un anno e mezzo dopo la sentenza di primo e di secondo grado. Ed è inaccettabile. E’ stata, difatti, codificata la legittimazione alla persecuzione eterna del povero sventurato accusato di un reato che potrebbe non aver commesso. Il male da rimuovere non è stato, ancora una volta, ravvisato nella inefficiente organizzazione della macchina giudiziaria, ma nella prescrizione del reato, perché affranca dalla pena quel singolo imputato. Ha creato clamore il comportamento di un magistrato torinese che, dichiarata la prescrizione di un reato sessuale, ha chiesto scusa alla società e alla vittima. Mi chiedo, ma se a distanza di oltre 20 anni dal fatto, un giorno prima della prescrizione, avesse assolto l’imputato, gli avrebbe chiesto scusa, per avergli devastato – e tanto a lungo – la vita? L’imputato, che abbia ottenuto la prescrizione, dovrebbe oltretutto, vergognarsi, come ha asserito, delirando al di fuori della legalità costituzionale, qualche illustre esponente dell’ordine giudiziario, cui andrebbe ricordato che la nostra Costituzione prevede la presunzione di innocenza sino all’accertamento definitivo della responsabilità. L’imputato, ch’era presunto innocente, resta tale anche dopo la prescrizione. Nulla s’è modificato. Ed è aberrante presumerlo innocente prima della sentenza definitiva e poi dichiararlo colpevole dopo la prescrizione e in assenza di quella sentenza. Il principio corretto è, invece, un altro. Per quanto tempo è giustificato che un cittadino sia sottoposto alla pena di un processo? Trascorso tale tempo, lo Stato ha obbligo di fermarsi. Invece, il ragionamento prediletto è un altro. Quanto tempo è necessario, considerate tutte le inefficienze, per concludere un processo? La prescrizione va fissata oltre tale tempo. Eppure l’esperienza insegna che per accelerare la definizione di una vicenda giudiziaria, occorre succingere e non dilatare il tempo utile per concluderla. Di tanto, il Legislatore non ha voluto tener conto ed è allora facile presagire che i processi si allungheranno sempre più e che per lo sventurato, soprattutto se innocente, che vi sarà sottoposto, si annunzia un infelice destino di persecuzione eterna.
M|CULT
5 dicembre 2017
Nicolas Balzano: giustizia, l’eterna persecuzione