Un po’ Dc, un po’ di sinistra e anche un po’ di destra, lo dice Beppe Grillo. Cioé: tutto e niente. Ecco cos’è lo tsunami giallo che ha travolto ogni cosa anche in Campania. L’effetto di un movimento «biodegradabile», sempre prendendo in prestito le parole del comico, quasi a mettere le mani avanti, perché in fondo tutto passa, prima o poi. Come in parte è già successo a Roma e a Torino, città governate dai Cinque Stelle, dove lo tsunami non c’è stato, ed è arrivata la sconfitta.
Nella politica senza partiti e senza ideali, «sopravvive chi si adatta», dice il filosofo pentastellato, e forse è la maniera più elegante per dire che vince chi meglio cavalca le paure dell’elettorato, chi promette meglio, chi riesce a far credere possibile persino un assegno mensile di 1.900 euro a famiglia.
Essere amorfi significa anche non avere identità. Nel bene e nel male. Nel bene perché è un pregio di chi deve rastrellare voti ovunque cavalcando gli spettri e la disperazione di una società-polveriera, nel male perché è un terribile difetto quando bisogna dare sostanza alle apparenze, e ovviamente stabilità di governo a un Paese che, a leggerlo dai social, cioè dal regno dei Cinque Stelle, inizia a sbandare paurosamente fino a credere (con milioni di like) che Di Maio col pugno chiuso e l’urlo stampato in viso davanti alle prime proiezioni, possa essere per davvero una foto, si legge, «che resterà nella storia d’Italia». E a proposito di immagini immortali, pur di restare in tema, Luigi Di Maio pare abbia scritto i suoi dieci comandamenti da presentare ai possibili alleati in attesa che il presidente della Repubblica gli affidi la missione di trovare una maggioranza in parlamento. Lui però ha smentito: «C’è un programma elettorale, pubblico e trasparente, votato da quasi 11 milioni di cittadini», dice.
In poco più di 24 ore, da «mai alleati con gli avversari» a «disponibili a discutere con tutti», del resto sopravvive chi si adatta, dice il guru del partito. E pur di adattarsi alla poltrona di premier, l’ex webmaster di Pomigliano d’Arco sarebbe disposto ad aprire le braccia, oltre a Leu, anche al Pd «derenzianizzato», asfaltato in Italia ma ancora il partito più votato dagli italiani all’estero. Che del resto sono le uniche alternative dopo che ha tracciato un limite invalicabile tra sé e Salvini, quindi tra sé e il centrodestra. Renzi potrebbe essere un ostacolo sulla strada dell’ammucchiata, però. Il segretario dimissionario del Pd, responsabile del tracollo del suo partito, ha avvisato i suoi: «Chi vuole governo con M5S o con le destre, lo dica in direzione», ha detto ieri. Una strada impercorribile per molti big di un partito da rifondare. Per Franceschini per esempio. Ma non per Michele Emiliano, disponibile a sedersi con il M5S.
Grillo ha suggerito a Di Maio quali passi compiere e quali trappole evitare per non bruciarsi, salvo poi affermare in pubblico che «le scelte strategiche di alleanza spettano al capo politico del movimento», cioè Di Maio.
Ma il ragazzo di Pomigliano, che ieri è salito sul predellino in stile Berlusconi per far festa tra la sua gente tra selfie e cori da stadio, non è l’unico aspirante primo ministro populista di un’Italia che s’aspetta grandi cambiamenti dopo le promesse elettorali. Lui è “solo” il «re» del Meridione, o delle Due Sicilie come l’ha ribattezzato qualcuno, l’altro ha la Padania in pugno, e anche lui va forte sul terreno rancoroso e intollerante dei social network.
Reddito di cittadinanza il cavallo di battaglia del primo, stop agli immigrati quello dello secondo. Populismo puro, per il quale su Facebook si strappano i capelli.
Anche nelle mani dell’erede di Umberto Bossi potrebbe finire la missione complicatissima di trovare in parlamento i numeri per sostenere un nuovo governo, ma siccome il leader della Lega ha tutta l’aria di non volersi piegare all’ipotesi di Antonio Tajani, presidente del parlamento europeo digeribile anche oltre il centrodestra, potrebbe essere comunque un tentativo vano. In fondo nessuno ha dimenticato quando raccoglieva l’acqua del Po nelle ampolle della secessione. Non a caso Berlusconi, che ha perso tutte le sue ultime fiches in una mano di poker azzardata, prova a farlo ragionare. «La nostra coalizione è risultata la prima formazione politica e questo deve essere determinante per ricevere l’incarico di governo. Terrò fede ai patti ma voglio restare regista del centrodestra e garante della compattezza della coalizione». Al Quirinale la coalizione ci andrà compatta, nell’idea ottimistica di Salvini, persino con in tasca la promessa di sostegno di alcune forze della sinistra, «perché c’è una tradizione di sinistra che guarda alla Lega e noi cercheremo di raccogliere quelle forze». Ma in ogni caso, «chi vuole sostenere il nostro programma che porterà l’Italia fuori dalle sabbie mobili lo accettiamo. Ma non faremo accordi partitici», ha detto Salvini, che in Europa spaventa forse più di Di Maio. «Noi andremo in Europa a cambiare regole che hanno impoverito gli italiani», dice l’erede di Bossi. Per superare l’imbarazzo di una maggioranza oggettivamente difficile nelle mani di Luigi Di Maio o Matteo Salvini, il presidente Sergio Mattarella potrebbe affidare il compito di costruire un governo di scopo al presidente della Camera, ma anche in questo caso potrebbe essere un pantano, perché uno dei due leader populisti potrebbe ritrovarsi sulla sua strada.
L’unica certezza nel caos è che il Pd, drammaticamente crollato nei consensi, questa volta avrà un ruolo di comparsa. Carlo Calenda annuncia che si iscriverà, perché «non bisogna fare un altro partito ma risollevare quello che c’è». Matteo Renzi, che ha presentato dimissioni post-datate, invece è tornato sulla crisi. «Le mie dimissioni non sono finte, le ho firmate. La delegazione che salirà al Colle si decide in direzione lunedì prossimo. Chi vuol trattare con il M5S lo dicesse in direzione, io intanto vado a sciare». Ammesso che trovi la neve.