Se c’è una categoria professionale che i camorristi non amano per niente, è quella dei giornalisti. Un magistrato, un poliziotto o un carabiniere sarà anche potenzialmente più pericoloso ma in fondo fa solo il suo lavoro, lo pagano apposta per far quello. Secondo molti boss, invece, il giornalista è un ficcanaso che potrebbe farsi tranquillamente i fatti suoi perché non indossa nessuna divisa che lo obbliga ad occuparsi dei criminali.
Senza ipocrisia si può comunque affermare che a molti boss non dispiace vedere il proprio nome o la propria foto stampata su un giornale perché è una prova di quanto siano potenti. Raffaele Cutolo, fondatore della Nuova Camorra Organizzata, fu il primo a capire l’importanza dei media, tant’è che non si è mai sottratto a taccuini, fotografi e telecamere. Di ben altro avviso Carmine Alfieri, capo della Nuova Famiglia, il quale minacciò di far chiudere un giornale perché troppo interessato alle sue faccende.
Siamo all’alba degli anni ’90. Alfieri, noto come “‘o ntufato” (ovvero un uomo dall’aria perennemente arrabbiata) è uno dei boss più ricchi d’Italia, più dei suoi omologhi di Cosa Nostra e ‘ndrangheta. Da una inchiesta del settimanale economico “Il Mondo” è emerso che la Nuova Famiglia ha un fatturato di 1.500 miliardi; insomma più che un clan è una holding. È evidente che questo colossale movimento di danaro è fondato su attività illegali, quindi Alfieri preferirebbe che nessuno infilasse il naso nei suoi affari sporchi. Passi che lo facciano gli “sbirri”, è il loro mestiere, ma i giornalisti no. Contrariamente a Cutolo non ha mai amato la ribalta, ma la sua riservatezza è figlia di un’altra vitale necessità: è latitante da diversi anni e lo Stato, dopo un periodo di scarso interesse nei confronti della criminalità organizzata, sta cominciando a fare sul serio e lui si sente braccato. Dunque, questo il suo ragionamento, meno si parla di lui, meglio è. La sua esistenza potrebbe essere più tranquilla se, ad esempio, qualche cronista del quotidiano “Roma” la smettesse di scrivere articoli sul suo conto e sul conto della Nuova Famiglia. Invece i giornalisti della storica testata riportata in vita nel 1990, sembrano essersi accaniti contro di lui. Ma non c’è nessun accanimento, al “Roma” i giornalisti fanno semplicemente il loro mestiere.
“‘O ntufato” tollera l’attenzione del giornale per un bel po’, poi ad un certo punto perde le staffe e inizia a lamentarsi per quella che ritiene una persecuzione. La sua ira è talmente incontenibile che un giorno decide di passare all’azione e di contattare Pasquale Casillo, l’imprenditore di San Giuseppe Vesuviano che ha riportato in edicola il “Roma”. A Casillo, conosciuto come “il Re del grano”, fa arrivare un messaggio chiaro ed inequivocabile: vuole parlargli a quattr’occhi, e quindi lo convoca nel suo rifugio segreto.
Casillo viene sollecitato in più occasioni, ma non risponde mai all’ordine perentorio di Alfieri. Sa quanto possa essere rischioso incontrare un noto latitante, per cui non gli passa nemmeno per l’anticamera del cervello di fare una chiacchierata con il capo della Nuova Famiglia. Alfieri s’incavola ancora di più, anche perché è sotto stress: i carabinieri per un pelo non lo hanno arrestato, avevano individuato il covo ma una “talpa” lo ha avvisato e lui se l’è squagliata in tempo. Nei primi giorni di agosto del 1992 il camorrista è più nervoso del solito, e si è convinto che se al “Roma” si facessero gli affari loro le cose andrebbero molto meglio. Non ha ancora digerito il disinteresse di Casillo ma non si è arreso ed ha fatto contattare l’avvocato Enzo Vitobello, stretto collaboratore del “Re del grano” nonché consigliere d’amministrazione della Edigen, la società editrice del giornale. Attraverso un suo conoscente, Alfieri convoca Vitobello nel suo bunker e gli spiega con durezza che se al “Roma” non si danno una calmata, Casillo passerà un brutto quarto d’ora. E un brutto quarto d’ora lo passerà pure il giornale, perché lui lo farà chiudere.
Il contenuto di quel colloquio l’avvocato Vitobello lo ricostruisce così in un interrogatorio avvenuto il 2 giugno 1994: «L’Alfieri, dopo aver fatto sfoggio di citazioni dotte e avermi offerto un caffè, cercò di rassicurarmi, avendo notato il mio imbarazzo. Mi disse che il quotidiano “Roma” gli attribuiva tutte le cose che accadevano in Italia e che pertanto lui si considerava ingiustamente vittima di una negativa campagna di stampa. Cercai di rappresentare all’Alfieri che vi erano numerosi giornalisti che lavoravano per il «Roma» e che rispetto ad alcune notizie di cronaca non si poteva assolutamente intervenire per modificarle.
Ricordo che di fronte alle giustificazioni da me poste, l’Alfieri con tono perentorio mi fece presente che sentiva dire per la prima volta che un padrone non potesse intervenire sui suoi dipendenti. Ovviamente tale affermazione era riferita al Casillo. In sostanza il senso del discorso di Alfieri era quello di attribuire a Pasquale Casillo la effettiva disponibilità del quotidiano e pertanto attribuiva a lui una mancanza di riguardo per una campagna di stampa che assumeva denigratoria nei suoi confronti. Il colloquio durò circa quindici o venti minuti e fu concluso da una affermazione dell’Alfieri il quale mi invitò a riferire a Pasquale Casillo “che il quotidiano doveva riportare solo le verità”».
Quei 10-15 minuti durano un’eternità per l’avvocato che esce dall’incontro parecchio turbato sia per aver incontrato un superlatitante della camorra, sia per i toni che ha adoperato Alfieri. Il boss, tra le altre cose, con Vitobello si è lamentato apertamente dell’atteggiamento strafottente di Casillo: non solo non ha il controllo dei cronisti del suo giornale, ma poi si è anche rifiutato di fargli visita. Un doppio affronto che l’imprenditore avrebbe potuto pagare a caro prezzo, come confermerà lo stesso Casillo in un interrogatorio reso ai magistrati il 18 maggio del 1994: «Vitobello mi riferì che Alfieri gli aveva detto che non riusciva più a tenere a bada i suoi uomini, che avevano intenzione di uccidermi. Che lui fino a quell’epoca, in virtù del suo antico rapporto di amicizia con mio padre, aveva cercato di proteggermi dalle pretese dei suoi uomini. Ma da quel momento non poteva più garantire la mia incolumità anche in conseguenza della pubblicazione sul quotidiano il “Roma” della foto di una villa di tale Ferdinando Cesarano, persona di cui io non conoscevo nemmeno il nome. Alla fine del discorso fece presente al Vitobello che noi dovevamo piegarci a non dare più fastidio con il giornale, oppure dovevamo chiudere il giornale pena rappresaglie nei mie confronti, altrimenti sarei stato ucciso. Quando il Vitobello mi ha riferito l’episodio io gli ho fatto presente che non ci saremmo piegati e che io non avevo paura di rappresaglie».
Quando Alfieri viene a sapere che neppure le minacce rivolte a Vitobello hanno sortito effetti, è intenzionato a reagire con la forza, così come aveva promesso.
Ma siamo nell’agosto del 1992 e il capo della Nuova Famiglia non sa che il tempo a sua disposizione sta per scadere. Pasquale Casillo e i giornalisti del “Roma” si salvano dalla furia del camorrista perché l’11 settembre i carabinieri, guidati dall’allora capitano Pasquale Angelosanto, arrestano Carmine Alfieri alla periferia di Scisciano, impedendogli di colpire i giornalisti e il loro editore. Un boss finisce in galera, fortunatamente la coscienza di un pugno di cronisti resta in libertà.