Riconciliarsi vuol dire perdonare e il perdono non è mai scontato quando le ferite dilaniano il cuore. Gandhi lo considerava un gesto per forti, di conseguenza un gesto precluso ai deboli, ma è ovvio che la vita non è quasi mai un aforisma. E’ più semplicemente un condensato di emozioni che a volte abbatte i muri, altre volte li alza, al di là della nostra volontà.Fino a ieri, Paolo Siani non aveva mai messo piede a Torre Annunziata, la città che suo fratello raccontava da cronista prima di essere massacrato. Per scelta. Così come per scelta non s’è mai seduto nella Mehari verde, l’auto che quella maledetta sera del 23 settembre 1985, diventò la bara di Giancarlo. Trentatré anni dopo, Paolo Siani ha trovato il coraggio di fermarsi ai piedi di quel muro, e con la virtù dei forti ha provato a guardare oltre, sperando disperatamente di scorgere una crepa. O almeno, è così che mi piace interpretare le sue parole.Ieri, ha fatto ciò che faceva Giancarlo: s’è seduto davanti agli studenti e ha parlato con il cuore, senza freni né filtri, ma con una durezza che merita rispetto, e impone una riflessione profonda.«Come posso perdonare Torre Annunziata?», s’è chiesto. Una città omertosa nei giorni del massacro di Giancarlo, come ha ricordato al nostro giornale Sensales, l’uomo che arrestò Valentino Gionta negli anni di Fortapàsc. «Una città dove sono ancora necessari i maxiblitz anticamorra », ha sottolineato rileggendo i titoli dei quotidiani che ieri raccontavano il clan delle donne che traffica droga tra i ruderi della Provolera. E poi, una riconciliazione si fa sempre in due «e il sindaco non è venuto», ha detto il medico-deputato, ironia della sorte eletto in Parlamento con lo stesso simbolo che ha spinto Vincenzo Ascione aPalazzo Criscuolo.Siani ha pronunciato parole non banali. Mai insensate. Non cattive. Parole potenti come solo il dolore profondo sa esserlo. Dico la verità: all’inizio mi son sembrate chiodi da crocifissione, poi a furia di analizzarle, quei chiodi son diventati ganci ai quali provare ad aggrapparsi. Mi piace pensare che Paolo Siani, nella sua crudezza, abbia voluto riproporre una prospettiva diversa dalla quale osservare Torre Annunziata e un intero territorio che vive ancora le stesse angosce di 33 anni fa, quando lo descriveva Giancarlo.Mi piace pensare che abbia voluto riproporre le stesse angosce che suo fratello sperava di contribuire a cancellare con l’umile contributo da cronista, che rispolverando i suoi insegnamenti, abbia deciso di riproporre la visione che Giancarlo tentò di concretizzare in un libro mai dato alle stampe, e forse mai terminato, di come sarebbe stata Torre Annunziata senza la camorra, senza il malaffare, senza la corruzione.Mi piace pensare che l’abbia fatto proprio per abbattere quel muro, per riconciliarsi con la terra nella quale la malerba che ancora attecchisce ha causato la morte di un ragazzo che scorazzava nella Mehari carica di sogni. Magari per contribuire a scuotere le coscienze in quest’angolo di paradiso ancora inquinato dal crimine che s’alimenta con la colpevole indifferenza di chi lascia ai mediocri le sorti del proprio destino. Mi piace pensare che nel nome di Giancarlo, Paolo Siani abbia voluto urlare la necessità di scuotersi, di provare a rimettere in piedi una comunità reale fondata su una visione grandiosa e non provinciale, di avere il coraggio di ribellarsi, di riprendersi un territorio che potrebbe diventare magnifico se solo decidesse di investire sulle sue eccellenze. Mi piace pensarlo. E spero che abbia interpretato bene il suo messaggio. Diversamente, le parole di Paolo Siani sarebbero una condanna ingiusta per chi non s’è mai arreso in questi territori, per chi ha continuato a sognare e a vivere in quelle strade dove Giancarlo si fermava ad appuntare notizie e a scattare foto. Da Napoli a Vico Equense, passando per Torre Annunziata e Castellammare. Significherebbe abbandonare questa terra definitivamente al suo destino, lasciare soli chi spera ancora di poterla cambiare, di lasciare un pezzo di Stato alla camorra, alla corruzione e al degrado sociale che toglie speranze ai giovani.Credere che la città sia imperdonabile significa addossarle anche colpe che non ha, e in qualche modo alleggerire le coscienze di camorristi, politici e colletti bianchi protagonisti al di là della verità giudiziaria. Significa soprattutto umiliare chi nel solco di Giancarlo prova ancora a cambiarla questa realtà. Disperatamente. Perché non resti Fortapàsc.Foto @Massimiliano Colombo
CRONACA
23 settembre 2018
Quel muro da abbattere tra Siani e Torre, perché non resti Fortapàsc