La “borsa” dell’usura è un business enorme sul quale le mafie hanno messo le mani da tempo. Spesso a far entrare la camorra nell’affare sono proprio gli strozzini. Funziona così: il “vampiro” di turno, dopo aver concesso prestiti a tassi stellari a imprenditori o semplici impiegati, cede il suo credito a un boss. Nel giro di poco la raccolta degli interessi si trasforma in una vera e propria estorsione fissa, che in alcuni casi può durare anche una vita intera. Il conto che si apre con la camorra, quasi sempre, si chiude solo quando si finisce in una bara. Un sistema terrificante che da una parte consente ai clan di creare un nuovo canale d’incasso e dall’altra aiuta le cosche a incunearsi nei meandri dell’economia “pulita”. Spesso arrivando a impadronirsi, tra minacce e tassi da capogiro, di importanti attività imprenditoriali. Non succede solo nei vicoli di Gomorra, nella Napoli violenta delle bombe e delle stese. Ma succede anche a Castellammare di Stabia, una delle città della provincia dove i boss spesso si nascondono anche dietro facoltosi imprenditori in doppio petto. Anche il clan D’Alessandro, la cosca più potente della città, avrebbe deciso di mettere le mani sull’affare dell’usura. Acquistando i crediti dagli strozzini e taglieggiando le vittime. Almeno è così che la pensa la Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli. Un retroscena sconvolgente che viene fuori dall’ultima inchiesta che, nei giorni scorsi, ha portato alla notifica di 29 avvisi di conclusione delle indagini preliminari per altrettanti soggetti ritenuti legali al clan. Tra questi anche i super pentiti Renato Cavaliere e Salvatore Belviso, oltre ai figli del padrino fondatore della cosca, Michele D’Alessandro. Nelle mani della Dda decine di estorsioni commesse ai danni di numerose attività commerciali. Ma anche un piccolo e significativo capitolo dedicato proprio all’usura. Una vicenda che vede implicati – secondo gli inquirenti – Vincenzo D’Alessandro, figlio di don Michele, oltre a Cavaliere. Per l’Antimafia il clan si sarebbe inserito all’interno di un prestito usuraio concesso a un imprenditore. Prestito da 45.000 euro complessivi. Successivamente proprio Vincenzo D’Alessandro – sempre secondo l’accusa – avrebbe saldato lo strozzino, subentrando nella contrattazione. Il tutto arrivando a chiedere alla vittima altre quote d’interesse nonostante l’uomo avesse da tempo saldato per intero il suo debito. A svolgere il ruolo di esattore, per conto del clan, sarebbe stato proprio il killer pentito Renato Cavaliere (già condannato per l’omicidio dell’ex consigliere comunale del Pd, Gino Tommasino). Attraverso i suoi emissari, Vincenzo D’Alessandro (oggi libero dopo aver scontato una lunga condanna per associazione mafiosa) avrebbe minacciato l’imprenditore. La vittima– sempre secondo il teorema della Dda – sarebbe addirittura stata portata al cospetto del boss. Per “saziare” gli appetiti criminali dei D’Alessandro l’imprenditore sotto usura sarebbe stato costretto a cedere anche un’auto ad alcuni soggetti vicini alla cosca. Abbastanza per far scattare, per i protagonisti della vicenda, l’accusa di usura con l’aggravante del metodo mafioso.
Ciro Formisano