La fabbrica della morte funzionava nel pieno rispetto della legge. Tutto, dentro e fuori quelle baracche, andava esattamente come doveva andare. Era la bonifica della razza. La cancellazione dei diversi. Il logico epilogo di un credo nato prima ancora del nazismo. Tralasciare quest’atroce verità significa non comprendere la storia, si rischia di legare tutte le responsabilità alla follia criminale di un solo uomo, si commette l’errore di assolvere intere generazioni che invece Auschwitz l’hanno generato. Soprattutto, si relega l’Olocausto nel passato, ci si convince che per quanto orribile sia stato non potrà macchiare l’era che ci godiamo comodamente nelle nostre case. E invece la realtà è un’altra. Il passato è presente. Forse proprio per colpa di una visione monca della Shoah siamo di nuovo sull’orlo del baratro, esattamente dove ci ritrovammo all’inizio del Novecento. Allora, mentre Hitler era ancora un caporale di trincea e il suo Mein Kampf il diario di uno sfigato, tutto iniziò con le differenze tra le razze, l’intolleranza per i diversi, la necessità di creare un nemico al quale addossare le colpe del mondo. Come accade oggi, coi migranti abbandonati in mare e gli stranieri oltre il muro. No, Auschwitz non può essere soltanto un concentrato d’orrore, Auschwitz deve essere un chiodo nella nostra anima. E prima ancora della memoria, dobbiamo conservarne la vergogna. Tutti. Anche noi italiani con le mani sporche, che mentre Hitler organizzava i forni abbiamo scritto, promulgato e salutato in tripudio il manifesto per la difesa della razza. Dieci ignobili regole di vita scritte da altrettanti uomini che ritenevamo eccellenze della scienza. Medici e professori, più fascisti dei fascisti stessi. Assassini morali, prima ancora che i gas iniziassero a cadere dalle docce dei campi di sterminio nazisti. Pensateci: 4.756 morti al giorno. Uomini, donne e bambini colpevoli di nulla, additati come nemici dalla scienza e dal populismo, sbranati dalla complicità di un’umanità cieca e rancorosa che alla fine ha giurato di non sapere. Quegli uomini erano in fila dai carri bestiame ai crematori. Ogni santo giorno. E tutto accadeva per legge. Perché doveva accadere. Perché quel mondo aveva scelto i diversi come agnelli sacrificali per assicurarsi quel futuro migliore prospettato da leader vuoti di ideali e di moralità e pieni di pregiudizi e veleno. La fabbrica della morte funzionava nel pieno rispetto della legge, raccontano oggi le anziane guide di Auschwitz. Per dire che non sempre le leggi sono giuste. Che non sempre chi le propone è illuminato. Che possono essere una vergogna, soprattutto se macchiate dall’odio, dall’intolleranza e dal sentimento della paura verso chi ostinatamente continuiamo a giudicare diverso. Come se Auschwitz non ci avesse insegnato nulla.
Raffaele Schettino