Quella toga scura che porta con sè gli odori delle aule di tribunale è sempre stata nel suo destino. Una seconda pelle cucita addosso già da bambino, quando passeggiando in calzoncini per le strade di Sorrento sognava di diventare pretore. «C’è chi vuole scendere in campo e giocare. Ma c’è anche chi vuole fare l’arbitro. A me questo mestiere ha sempre affascinato». La voce che rimbalza tra le vetrate di un ufficio con vista sul golfo di Napoli, è quella del presidente del tribunale di Torre Annunziata, Ernesto Aghina. Di strada ne ha fatta tanta quel bambino che oggi è diventato un uomo distinto seduto davanti al tricolore. E’ stato pretore, pubblico ministero, componente del Consiglio superiore della magistratura, docente universitario ed anche membro del primo comitato direttivo della scuola Superiore della Magistratura: lì, dove si formano i giudici del domani. In mezzo le amicizie con Giovanni Falcone, Armando Spataro, Raffaele Cantone, Franco Roberti. Ma anche l’amore per Gianni Rivera, i tornei di ping pong e quel quadro di Murat.
Quarant’anni di carriera e di vita, scanditi, così ha voluto il destino, da due tragedie: il sisma del 1980 e la strage di Rampa Nunziante.
«Nel 1980 è stata la natura, il terremoto. Qui no. Qui le responsabilità, probabilmente, vanno ricercate altrove», ripete con uno sguardo che si fa improvvisamente severo.
Presidente Aghina, partiamo dai ricordi di quella terribile domenica di trentanove anni fa
«Avevo appena vinto il concorso in magistratura a venticinque anni. Fui assegnato alla pretura di Sant’Angelo dei Lombardi. Un paesino che nemmeno conoscevo. Sono entrato in servizio e venti giorni dopo c’è stato il terremoto».
Cosa le ha lasciato dentro quell’esperienza?
«La consapevolezza che in fondo la vita si regge su equilibri fragilissimi».
Cosa intende?
«Guardi, per puro caso non ero in servizio: il 23 novembre del 1980 era domenica, altrimenti oggi io e lei non saremo qui a parlare. Tornai lì il lunedì e la mia casa era completamente distrutta, rasa al suolo. Anche il tribunale non c’era più. Quando arrivai mi tolsi la giacca e la cravatta e feci quello che facevano gli altri. Comincia a scavare a mani nude per cercare un filo di voce in fondo a quelle macerie».
Ha scavato, però, anche nei misteri del post-terremoto.
«Sì, mi ritrovai catapultato in un mondo più grande di me. Venni applicato come pm in un tribunale che divenne l’epicentro delle principali inchieste sul sisma. Ho lavorato assieme al mio amico Franco Roberti. Abbiamo indagato sui “crolli facili”. E’ stata un’esperienza drammatica ma esaltante dal punto di vista professionale».
Presidente, cosa le resta di quegli anni?
«La consapevolezza di aver fatto qualcosa per chi ha creduto nella giustizia. Guardi questa targa, è la cosa più preziosa che ho in quest’ufficio. E’ la cittadinanza onoraria che il Comune di Sant’Angelo dei Lombardi ha conferito a me e Franco Roberti. Ancora oggi la gente è riconoscente per ciò che abbiamo fatto».
La tragedia del 7 luglio 2017, la palazzina crollata a Torre e gli otto morti le hanno riportato alla mente quelle immagini?
«Sì, è stato come rivivere in parte quella vicenda. Ma lì fu il terremoto, un evento naturale imprevedibile. Qui probabilmente le responsabilità vanno ricercate altrove».
Chi ha influenzato maggiormente la sua carriera?
«Sicuramente Armando Spataro (ex procuratore di Torino che a fine carriera, inspiegabilmente, è stato costretto a difendersi dagli attacchi del ministro Salvini ndr) ma anche Franco Roberti. Ho conosciuto tanti magistrati di grandissimo livello».
Lei ha conosciuto anche Giovanni Falcone. Martire della lotta alle mafie.
“Giovanni era un uomo speciale. Di lui mi ha sempre colpito la sua serena rassegnazione. Sapeva di sfidare la morte, ma è andato avanti lo stesso. Anche davanti alla lotta interna per la nomina a consigliere istruttore di Palermo».
Che ricordo ha di Falcone?
«Pensi una volta per prendere un caffè dovemmo aspettare mezz’ora. Il tempo che la sua scorta e gli artificieri controllassero lo stato di sicurezza del bar. Erano anni complicati».
Oggi è qui a Torre Annunziata, in una zona dove corruzione e camorra sono ancora un cancro che frena lo sviluppo. Che aria si respira?
«E’ una realtà complessa, che varia a seconda dei territori. C’è sicuramente una demarcazione netta tra la zona torrese e la penisola sorrentina. Sono contesti opposti sotto il profilo economico, ma i problemi sono ugualmente gravi. Mi hanno detto che uno studio evidenzia Torre Annunziata come una delle città con la più elevata percentuale tra popolazione residente e detenuta. Poi ci sono i crac finanziari. Penso alla Deiulemar, vicenda che ha inciso sulla vita di migliaia di persone».
Tolta la toga, però, c’è l’uomo. Come trascorre il tempo libero un giudice?
«Da giovane ero un campioncino di ping pong, poi ho appeso la racchetta al chiodo, diventando vicepresidente della federazione tennis tavolo. Amo la pesca e il calcio, mi sono innamorato del Milan di Rivera negli anni ’70. Ma tifo anche per il Sorrento».
E quel quadro di Gioacchino Murat che ha nel suo ufficio?
«Ecco è quella una mia singolare passione. Da anni colleziono cimeli e documenti sulla vita di quello che fu, se pure per breve tempo, il re di Napoli. Ironia della sorte, e questo lo scoperto stando qui, Torre Annunziata per un periodo si è chiamata “Gioacchinopoli”. C’è anche un rione intitolato a Murat. Forse era destino che io lavorassi in questo tribunale».
Tra le tante belle esperienze della sua carriera c’è però anche qualche brutto ricordo?
«La recente vicenda della corruzione al giudice di pace mi ha ferito profondamente. Perché chi ha tradito la sua missione ha indebolito anche la fiducia nella giustizia. E’ stato un duro colpo per tutti, soprattutto perché in questi anni abbiamo provato a rafforzare i legami con i cittadini. Aprendo ad esempio le porte del palazzo di giustizia agli studenti (la prossima settimana ad esempio realizzeremo una simulazione processuale per studenti delle medie). Io sono dell’idea che l’educazione alla legalità si realizzi più efficacemente attraverso la divulgazione di quanto accade ogni giorno nei palazzi di giustizia che mediante declamazioni teoriche».
Presidente, sono passati trentanove anni da quando ha varcato per la prima volta le porte di un tribunale. Rifarebbe tutto quello che ha fatto?
«Sicuramente rifarei il magistrato. Il nostro è un mestiere difficile ma entusiasmante».
Ciro Formisano