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Il concerto dei Cure raccontato da Carlo Tarallo. Da Boys Don’t Cry a Lullaby, tutte le perle del Firenze Rock
M|CULT
21 giugno 2019
Il concerto dei Cure raccontato da Carlo Tarallo. Da Boys Don’t Cry a Lullaby, tutte le perle del Firenze Rock
michele imparato

Di Carlo Tarallo

La carrozza 6 del Frecciarossa diretto a Firenze, domenica mattina, è semivuota. Una coppia di ventenni è sospettissima: occhiali improponibili, tatuaggi simil-dark. Il tizio accanto a me, poi, che te lo dico a fare: sulla 50ina (in realtà il rock ringiovanisce, appena iniziamo a parlare mi dice che è del ’64, ma se li porta benissimo), ha proprio l’aspetto di quello che sta andando al concerto. “Stai andando al concerto?” gli chiedo. “Sì!” risponde lui. “Anche noi”, dicono i ragazzi. “Ok, non tutto è perduto”, penso io, rigenerato: i Cure e zio Robert Smith stasera avranno l’accoglienza che meritano. Arrivo alla Visarno Arena intorno alle 18, dopo una ribollita (ci sta tutta, anche a 40 gradi ci sta tutta) e un paio di birre: meglio fare il pieno, che sai lì dentro che prezzi! Il pratone è già mezzo pieno, un caldo infame, una marea di gente, generazione “ma che ne sapete voi millennials”. I canadesi Sum 41 iniziano suonare una mezz’oretta più tardi: bravini, si picchiano duro, ma per riuscire a far alzare dai teli stesi sull’erba noi che siamo lì solo per zio Robert devono suonare pezzi dei Floyd e dei Queen. “Oh ma questi chi sono?” chiedo a un ragazzo che sembra apprezzarli. “I Sum 41!” mi risponde come a dire “Zio, ma come, non li conosci?”. “Ma chi li conosce!” replica il mio sguardo. Intorno alle 20 e 30 tutto pieno, e maledico il fatto che l’evento conclusivo di Firenze Rocks 2019, il concerto dei Cure, sembra proprio che sia coinciso con la giornata più lunga dell’anno, e so che se il sole non scende Robert col cazzo che si presenta sul palco: siamo (eravamo) dark, ci abbronziamo con la luna. Puntuale, alle 21 arriva la luna e arrivano loro: Robert ha 60 anni, si vede che apprezza il buon cibo, è allegro e giocherellone. Ha voglia di festeggiare i 40 di carriera (24 ore fa li ha compiuti Boys don’t cry) divertendo e divertendosi, si vede, si sente. Si parte con Shake Dog Shake che è tipo un gol al primo minuto: non ci sarebbe alcun bisogno di riscaldare il pubblico, eppure la temperatura sale ancora. Robert ci fa capire l’aria che tira: balla, ride, suona e canta che è una meraviglia. Simon Gallup invece è in modalità diesel: ha bisogno di qualche pezzo per iniziare a correre e saltellare con il suo basso lungo tutto il palco, poi non si fermerà più. Palco, ovviamente, spoglissimo: luci e colori, i Cure non hanno mica bisogno di effetti speciali, basta l’eyeliner di Robert per trasformare questo ippodromo nel regno delle fiabe, nel regno di questo ragazzone di 60 anni che ha sempre lo stesso sguardo dolce di quando, 40 anni fa, fece innamorare il mondo. Quando parte Pictures of You, il pubblico ingrana la quinta e da quel momento in poi avremo tutti la chiara percezione di partecipare a un evento leggendario: ballano tutti, balla Robert, Simon è scatenato, il suo basso decolla su Just Like Heaven. Smith sembra in stato di grazia: scherza col pubblico, si diverte come un matto, il ragazzo immaginario è sempre lì, e noi con lui, noi cresciuti sapendo che il nichilismo, quello vero, ha il suo sorriso e il suo make up. La scaletta è quella degli ultimi concerti, l’energia sprigionata dai Cure invece è quella di una serata destinata e diventare Storia: Gallup è una molla, Robert ci regala Lovesong, Fascination Street, In Between Days. Quando arriva A Forest l’arena sussulta, tipo bradisismo: visto che sono in vena, Robert e Simon ci concedono una sfumatura del pezzo leggendaria, accompagnata solo dal battimani del pubblico. Jason Cooper alla batteria, Roger O’Donnell alle tastiere e Reeves Gabrels alle chitarre sono indiavolati: Roger ha 64 anni, tanto per fare un esempio, ma sorride al pubblico e si diverte manco fosse all’esordio. Passa un’ora e tre quarti, le luci si spengono, i ragazzi immaginari sul palco prendono un po’ di fiato, quelli sul prato si chiedono cosa stia succedendo. Semplice: sta per iniziare un altro concerto! I Cure tornano su per i bis e Robert, ancora una volta, dialoga col pubblico e dice: “Ora faremo qualche pezzo pop”. Sarebbero, non so se mi spiego: Lullaby, The Caterpillar, The Walk, Doing the unstuck, Friday I’m in Love, Close to me, Why can’t I be you. Su questi ultimi due pezzi Robert balla come ai bei tempi, questo pupazzetto meraviglioso ha deciso di farci spuntare la lacrimuccia. Si chiude con Boys don’t cry, la aspettavamo tutti, lo sapevamo che sarebbe finita così, lo sapevamo troppo bene. La lacrimuccia diventa estasi mistica, Robert ringrazia ancora tutti, è contento come un ragazzino immaginario: ha suonato 29 pezzi, due ore e mezza di pura energia, magia. Ringrazia ancora tutti, promette che li rivedremo presto, sorride e sorride. Si va via dalla Visarno Arena con la netta sensazione di aver partecipato a un concerto leggendario, ci si saluta e ci si abbraccia con quei ragazzi immaginari conosciuti (anzi, riconosciuti) sul prato che ora hanno tra i 40 e X anni e che hanno ballato per due ore e mezza insieme a Robert e ai Cure. Ci rivedremo presto, tanto siamo sempre qua. Eh già.

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