Per essere bello, il gioco di rombi intrecciati che formano un motivo tardo rinascimentale sullo sfondo della maglietta, è bello. Persino suggestivo, se non si pensa alla carta da parato di terza scelta in voga negli anni ’80. Ma se la maglietta, di un verde incerto tendente al petrolio stinto, adornata da un colletto azzurro tendente al violaceo lutto-stretto, è quella della Nazionale di calcio proprio non si può digerire.
Il regno del pallone è un carosello di colori che gli sponsor tecnici, sempre più abili e sfrontati (pecunia non olet) sono riusciti a destrutturare minando le certezze di intere generazioni di tifosi, cui è rimasta ormai solo la madre, evidentemente. Tuttavia l’azzurro dell’Italia, mutuato all’inizio del ‘900 da Casa Savoia, non era mai stato messo in discussione perché è il colore “iconico” che tutti gli sportivi riconoscono, perché è il comune denominatore di tutte le nazionali e sopravanza per distacco il rosso Ferrari. Finora.Ora l’ultimo dei tabù è caduto per opera dello sponsor della Figc capace di fare verdi gli Azzurri. Sabato prossimo in occasione della partita contro la Grecia all’Olimpico di Roma, come sappiamo, i giocatori italiani sfoggeranno una divisa verde, che secondo la narrazione pseudo romantica della Federazione rappresenta il Rinascimento del calcio italiano segnando «una nuova era per la Nazionale nel momento in cui un gruppo di giovani calciatori sta conquistando un ruolo importante nella rosa azzurra (ma anche verde)».Fino a qualche tempo fa ipotizzare le strisce bianconere per il Napoli, il rossonero per l’Inter o il blaugrana per Real Madrid avrebbe scatenato sommosse popolari. Men che meno toccare il colore della nazionale.
C’era un limes che gli sponsor tecnici, bontà loro, avevano deciso di non superare mai. Ma adesso ci sono spudoratamente vicini, perché hanno rotto gli argini non solo del buon gusto, ma hanno pure calpestato, col beneplacito dei presidenti, la poetica della storia centenaria di ogni singolo club. Nel florilegio di colori perpetrato sulle seconde maglie o nella sperimentazione estrema praticata sulle terze, una maglia vale quella dell’anno prima, quella di due anni prima e così via. Così ogni stagione porta le sue pene come quella in corso nella quale l’irriconoscibile Juventus, per citare il caso più vistoso, si presenta senza le storiche strisce o con una divisa tanto cara al Lanerossi Vicenza.Eppure l’origine dei colori delle squadre, innestata da una rigorosa sintassi araldica, ha tenuto storicamente conto, dell’appartenenza sociale, politica, della religione. Oggi no, domina il dinamismo cromatico: sulle maglie dei club si torna talvolta all’antico o si prova col post moderno, si accenna al vintage o si osa cancellando i simboli identitari delle squadre nel segno delle più marcate operazioni di marketing.E la scelta del verde Nazionale? Facile. Si può andare per esclusione. Non è un inno alla speranza per esorcizzare i guasti della globalizzazione, non c’entrano le battaglie ecologiste della piccola Greta né lo stato di indigenza di molte famiglie italiane.
E’ una raffinata operazione commerciale paradigma di quel carrozzone calcistico che rincorre ossessivamente i ricavi, che non vuole più tifosi ma spettatori delle pay-tv, che predilige l’intrattenimento ai contenuti giornalistici, che considera la maglia della squadra del cuore un indumento da rinnovare ogni anno. Sono le regole, ferree e ben remunerate, del merchandising.Non ci resta che opporre il potere della fantasia. Se l’Italia vincerà, diremo «grazie Azzurri».