Rocco Traisci
Pino Daniele non improvvisava mai. Eppure le sue session potevano durare ore. D’altronde con quei musicisti che si ritrovava in sala prova non era difficile organizzare delle jam (con Lino Zurzolo, James Senese, Tullio De Piscopo, Tony Esposito, solo per citarne alcuni), magari con una bella bottiglia di vino appoggiata su un amplificatore.
Sono passati più di quarant’anni da quelle magiche nottate e appena cinque dalla sua morte, avvenuta il 4 gennaio del 2015 nella sua casa di Orbetello, in Toscana. Eppure ciò che rimane del più grande cantuatore napoletano di sempre non sono solo le canzoni, ma un mondo fatto di parole, linguaggi, poesia e suggestioni difficilmente ripetibili.
La lingua è sicuramente il vero tratto distintivo di Pino. Quando nel passaggio fra ’40 e ’50 il blues si elettrifica e semina cromosomi rock’n’roll e rhythm’n’blues, soul e funky, salta fuori un altro ingrediente che rende leggendarie hits come “Yes I Know my way”: il crossover dei gerghi, non solo quelli americani (già ampiamente mescolati a termini portoricani e irlandesi) che arrivano dallo slang “nero”, ma anche quelli appresi dalla cultura della beat generation, in cui i temi della fuga, del viaggio e della libertà risuonavano nei pamphlet di Lawrence Ferlinghetti o nei romanzi di formazione di Jack Kerouac. Se “I say ‘i sto cà” ha la struttura del cut up, con tagli in sillabe a metà strada tra inglese e napoletano, dobbiamo anche all’antica “parlesia” napoletana la nascita di parole che Pino Daniele riuscì a trasferire nel suo gergo, come in Tarumbò, in cui emerge la figura dello “Jammone” o in “Mò Basta”, in cui si parla di “spunire”, termine usato da contrabbandieri e gente di malaffare per definire una cattiva azione in opposizione ad “appunire”. Divertenti esempi di “parlesia” (per capire di cosa parliamo) vengono ripresi anche in un film degli anni ’80, “No, grazie il caffè mi rende nervoso” di Lello Arena, dove si parla di “sgambose” (sigarette), della “certa” che è la morte. Insomma, Pino sui testi ci lavorava da filologo, recuperando anche termini che di per se non hanno grande impatto poetico: “Arresecarsi” “Sbareare” sono infatti verbi di uso comune nel linguaggio napoletano: “arresecarsi”, come noto, significa intraprendere imprese davvero difficili da portare a termine così come ci si “arreseca” in un viaggio o in una storia sentimentale. Mentre “sbareare” è ciò che fanno tutti i musicisti quando hanno uno strumento in mano, divertirsi, distrarsi, improvvisare. Ma è sempre la matrice anglofona che fa di Pino Daniele, oltre che un raffinato chitarrista di rock blues, anche uno straordinario paroliere di respiro mondiale, tanto che in canzoni come Ferryboat è il napoletano a fare da comprimario all’inglese, che si prende tutta la canzone (you pe’ chesta generation parla tu, and tell me exactly where I got to stay, speak american sulamente today You si nun m’o ddice i’ nunn’o ffaccio cchiù and tell me exactly what I got to say today). A risolvere il mistero di questa scelta stilistica ci pensa lo stesso Pino all’interno del pezzo, quando dice “speak american sulament pe pazzià”. E tra una “pazzaria” e l’altro emerge anche la bellissima “Keep On Moving”, dove il dialetto dei quartieri si riprende la scena con “le canzoni che ti fanno fesso” e con “n’gopp ‘e sordo a gent non guarda in faccia a nessuno”. I napoletani stessi hanno imparato a capire tante parole dimenticate nel lessico comune: una delle più belle e significative è sicuramente “Appucundria”, che è l’interfaccia del termine italiano “ipocondria”, ma con una valenza molto più malinconica e disperata, che in realtà racconta il delitto dell’amore, il dolore e le conseguenze di un malessere insopportabile. Con “Bella ‘Mbriana” Pino Daniele raggiunge picchi di poetica dialettale fuori dal comune, con un testo breve, minimale ma che “spacca” sin alle prime parole: “si sapisse votta a passà sta jacuera” fino alla “bonasera a chi torna a casa ‘co core rutto”.Per Treccani “la bella ‘mbriana”, nella credenza popolare napoletana, è lo spirito benefico della casa. Deve il proprio nome alla meridiana, simbolo del sole e del calore domestico, e convive col munaciello, spirito bizzarro, a volte positivo, altre volte dispettoso. Insomma, con le canzoni di Pino Daniele i napoletani hanno imparato a parlare un po’ di slang americano e anche uni pizzico di lingua napoletana che sembrava perduta nelle pagine antiche di Giovambattista Basile. Sta di fatto che questa enorme versatilità linguistica va di pari passo con la grande versatilità artistica del Pino chitarrista, che gli vale una serie di accrediti nel gotha del grande jazz blues, da Yellow Jackets a Mike Mainieri, da Pat Metheny a Chick Corea. Il riconoscimento da hall of fame che contribuisce a rendere Napoli anche una sofisticata scena di world music.