Stadio Dall’Ara, 21 dicembre 1980. Bologna-Fiorentina è sul 2-1. I viola vanno all’assalto della porta di Zinetti, il numero uno rossoblù. Cento metri più in là, di portiere, ce n’è un altro. E’ Giovanni Galli. Sbraita. Incita i compagni. E freme perché ignora i risultati delle altre partite. Poi si volta e nota un ragazzino accanto ai tabelloni pubblicitari. Ha una radio. Gli chiede di avvicinarsi.
Il raccattapalle scatta e si accovaccia accanto al palo. I fotografi immortalano il momento: Galli e il ragazzino, uno accanto all’altro, ascoltano “Tutto il calcio minuto per minuto” mentre in campo si continua a giocare. Una scena oggi impensabile perché il calcio è divenuto uno spezzatino a portata di smartphone. «Eppure una partita raccontata o seguita alla radio è unica» sorride Riccardo Cucchi, voce leggendaria del programma di Radio Rai e fonte di ispirazione per chi sogna di diventare giornalista. Ha raccontato 19 scudetti (tra cui quello della “sua” Lazio nel 2000, passione svelata solo dopo aver smesso i panni di radiocronista), otto Olimpiadi e sei Mondiali di calcio. Ha potuto urlare «campioni del mondo» nella finale vinta dall’Italia contro la Francia a Berlino nel 2006 e tuttora rappresenta un’icona di stile. Non a caso San Siro gli tributò un omaggio il pomeriggio del 12 febbraio 2017 per l’ultima radiocronaca.
«Era Inter-Empoli – ricorda Cucchi – All’improvviso i tifosi nerazzurri srotolarono uno striscione dedicato a me. Così, ripresa la linea, salutai il pubblico e alzai il braccio. Lo stadio ruggì, un momento straordinario anche per la radio». Sì, perché nonostante tutto, il fascino di “Tutto il calcio minuto per minuto” resiste. «La radio è insuperabile perché suscita nell’ascoltatore un pizzico di speranza – dice Cucchi – Ci sono solo le parole e chi segue una partita immagina le azioni, come si sviluppa il contropiede, prova a carpire l’esito di un rigore dalle reazioni in sottofondo dello stadio. Non è bellissimo tutto questo?». Vero, anche se la differenza la fa la classe di chi è al microfono. «Adesso fare una radiocronaca è meno complicato. In postazione ci sono i monitor. Le difficoltà restano legate al gioco, ormai frenetico.
Faccio un esempio: raccontare il tiki-taka del Barcellona di Guardiola era un’impresa perché con decine di tocchi ravvicinati a metà campo si rischiava di annoiare gli ascoltatori». I quali hanno eletto proprio Cucchi a simbolo di equilibrio. «E’ questo il mio scudetto. Come disse Biagi, il giornalista è un testimone. Non si può essere tifosi e nel contempo essere terzi».
Come se ne esce fuori?
«E’ un conflitto irrisolvibile – risponde Cucchi – Servirebbe lealtà. Nel mio caso, risolvere il problema è stato semplice. Ho vissuto lo scudetto di Maestrelli in curva, ma non mi sono mai fatto condizionare dal tifo. Ho raccontato vittorie e cadute di qualsiasi squadra con la stessa enfasi». Seppur ci sia un’eccezione. Quella della finale di Berlino. «L’apice della mia carriera – evidenzia Cucchi – Alla vigilia pensai di appuntarmi qualcosa che avrei dovuto dire a fine gara in caso di vittoria o sconfitta. Ma quando Grosso segnò il rigore andai a braccio, seguendo l’emozione. Pensai a Ciotti, un pilastro della nostra storia che a Pasadena, nel 1994, terminò la sua radiocronaca col rigore fallito da Baggio».
Oggi Cucchi va “liberamente” all’Olimpico a seguire la Lazio, si dedica alla scrittura (il suo libro, “Radio Goal”, in cui ripercorre i suoi 35 anni in radio, è andato a ruba) e fa il semplice ascoltatore. «Con i colleghi conservo un grande rapporto umano. Ma non ho nostalgia. Sono stato un privilegiato. Ho dato tutto me stesso e spero che la professione del giornalista torni a dare chance ai giovani». Un sospiro. «Ho inseguito un sogno. E’ davvero tutto» chiude Cucchi. Ci riprendiamo la linea, maestro.