«Viviamo con l’ansia di essere positivi al contagio. Costretti comunque a lavorare con le dovute precauzioni perché il personale è ridotto all’osso. E non rientriamo a casa dai nostri familiari perché temiamo di contagiarli. E’ un incubo, un maledetto incubo, qualcuno faccia qualcosa». Dall’altra parte della cornetta c’è un infermiere. Piange. Mostra la sua parte più debole, quella tenuta nascosta a chi ogni giorno lotta tra le corsie degli ospedali e li crede invincibili. Oggi ancora di più. L’operatore ha 47 anni, tredici passati al pronto soccorso dell’ospedale di Boscotrecase, il presidio Madonna della Neve-Sant’Anna, l’unico plesso sanitario in un territorio vasto e difficile. Una struttura di frontiera ogni giorno, ma che con l’emergenza Covid-19 si è trasformata in un inferno. I medici non mollano e tra mille difficoltà tirano avanti. Consumano guanti e mascherine che ormai stanno per finire. Ma non si fermano. Tra turni infiniti e massacranti dove persino mantenere la lucidità diventa un rischio. Da qualche giorno, però, sulle loro spalle non c’è solo la responsabilità di salvare vite umane, ma anche quella di pregare di non essere stati contagiati. «Non voglio creare panico e ho il dovere di continuare a stare in corsia, ma dovete sapere tutti l’incubo che stiamo attraversando». Il suo racconto dura 48 minuti, una telefonata che spezza il cuore in due parti. Un pugno nello stomaco. «Il 9 marzo ero in ospedale per il mio turno – racconta – in fila c’erano tante persone. Il triage era zeppo: tra questi anche due pazienti. Uno di loro era stato sottoposto al tampone. Non aveva i sintomi, e dopo il check è stato rispedito a casa con l’obbligo non uscire». Poi la doccia gelata arrivata dopo due giorni: «Ci hanno chiamato dall’ospedale Cotugno per comunicarci che il paziente era positivo e con lui anche un’altra persona, due anziani. I pazienti sono stati prelevati al proprio domicilio e trasferiti a Napoli, ma per noi è iniziato l’inferno». Si ferma un attimo, prende fiato e ricomincia con una voce sempre più tremante: «Quel giorno, a contatto con il paziente positivo, non ci sono stato solo io ma anche tanti altri colleghi, il personale infermieristico e non, gli addetti alle pulizie che in questi giorni stanno effettuando pulizie in continuazione – incalza- Ovviamente pure qualche utente che era in pronto soccorso per altre esigenze. Questo significa che tutti potrebbe essere stati già contagiati ma non possiamo essere sottoposti al tampone». La rabbia e la paura si mescolano mentre il suo racconto fa venire i brividi: «Quando abbiamo avuto la notizia ci siamo gelati – continua – Non ho paura per me, ma per la mia famiglia. E’ una preoccupazione che abbiamo in tanti e per evitare contagi abbiamo deciso di vivere in isolamento anche se avremmo già averlo anche potuto trasmettere. Non possiamo vivere così – spiega – A lavoro siamo ovattati tra mascherine, guanti e tute per evitare di contagiare gli altri qualora siamo portatori del virus. Vogliamo essere sottoposti a tampone. Chiediamo solo questo. Per poter lavorare più serenamente, per poter tornare a vivere con le nostre famiglie che sono l’unica ancòra di salvezza che abbiamo». Un appello in lacrime per una richiesta di aiuto che fino a oggi è caduta nel vuoto. Inascoltata da chi invece avrebbe dovuto sottoporli se non al tampone almeno alla quarantena obbligatoria: «Non possiamo scegliere nemmeno di stare a casa in autotutela, le ferie sono bloccate, il personale è ridotto all’osso e fino a quando non presentiamo sintomi non verremmo sottoposti al tampone». Un caso che non coinvolge solo l’infermiere del pronto soccorso ma almeno altre 15 unità: «Pensiamo di aver avuto contatti con molte più persone, l’ospedale in questi giorni è un inferno. Non ci chiamate angeli bianchi o eroi, siamo comuni mortali e anche noi, oggi, abbiamo paura».
CRONACA
15 marzo 2020
L’inferno nel triage di Boscotrecase: «Curiamo i contagiati ma fateci il tampone»