In queste ore, si sta discutendo di come le tecnologie e l’analisi dei dati potrebbero o dovrebbero essere utilizzati per contribuire a fermare il contagio da Coronavirus.
Di seguito un contributo sul tema di Massimo Canducci, Chief Innovation Officer di Engineering, il più grande gruppo tecnologico italiano. Un’analisi che richiama l’urgenza di definire un quadro regolatore che consenta di tutelare la privacy ma di contemplare anche esigenze eccezionali che dovessero verificarsi. Si tratta di capire se e come utilizzare l’enorme mole di informazioni memorizzate nei nostri smartphone, informazioni sulla nostra posizione e sulle nostre attività, oltre che per scopi commerciali, per migliorare il nostro profilo da consumatore e per metterci meglio in relazione con i nostri contatti sui social, anche per contribuire alla nostra sopravvivenza.
Alcune delle procedure per il contenimento della diffusione del COVID-19, meglio noto come Coronavirus, sono basate sul tentativo, una volta individuati i soggetti contagiati, di ricostruire, insieme a loro, quello che hanno fatto nei giorni precedenti, chi hanno incontrato e che luoghi hanno frequentato. Questo per individuare le altre persone che, essendo state in contatto, potrebbero essere state contagiate, divenendo soggetti in grado di contagiare, a loro volta, altre persone, in una sorta di reazione a catena che, se non interrotta nelle fasi iniziali, può diventare inarrestabile.
L’individuazione del grafo di contagio è un’operazione lunga, complessa, in cui il tempo è una variabile determinante: prima si riescono ad individuare ed avvertire le persone potenzialmente contagiate, prima si può dar loro assistenza e contemporaneamente limitare il diffondersi dell’epidemia impedendo che questi entrino in contatto con altri soggetti.
Il vero problema è che questa fase di ricerca viene compiuta essenzialmente intervistando le persone, chiedendo loro dove siano state nei giorni precedenti, chi abbiano incontrato, che luoghi abbiano frequentato, quali mezzi di trasporto abbiano utilizzato, cercando successivamente di recuperare con enorme fatica i nomi di tutti quelli che potrebbero aver incontrato nello stesso vagone del treno, nello stesso ristorante o alla stessa riunione di lavoro, scontrandosi inevitabilmente con errori, imprecisioni e potenziali omissioni volontarie.
In Corea del Sud la questione è stata affrontata in modo molto pragmatico, utilizzando tutte le informazioni disponibili allo scopo di identificare i cittadini potenzialmente infetti per prevenire il contagio di altre porzioni di popolazione. Tra le informazioni utilizzate ci sono anche le immagini delle telecamere di sicurezza, le transazioni delle carte di credito, i dati di posizionamento rilevati da smartphone e automobili. Sono state rilevate, incrociate ed elaborate e questo ha consentito di ridurre drasticamente le dimensioni del grafo di contagio.
In Italia invece queste analisi vengono fatte manualmente e con molta fatica, sebbene esista una gigantesca base dati completa, precisa ed affidabile, in grado di fornire l’informazione puntuale di dove fossimo in un certo momento e con chi, fornendo al tempo stesso i dati anagrafici ed i relativi spostamenti successivi di tutte le persone che abbiamo incontrato nel periodo di osservazione, quelle che conosciamo come familiari, amici e colleghi, ma anche quelle che non conosciamo, quelle che ci erano sedute accanto in treno, quelle che erano al tavolo accanto al nostro al ristorante, quelle con cui abbiamo condiviso la sala d’aspetto di un professionista.
Si tratta dell’enorme mole di informazioni generate da noi stessi attraverso gli smartphone, dispositivi che sono utilizzati dalla quasi totalità della popolazione, strumenti che in ogni istante memorizzano le informazioni sulla nostra posizione e le utilizzano per scopi commerciali, per migliorare il nostro profilo da consumatore o per metterci meglio in relazione con i nostri contatti sui social.
Se invece di utilizzare la tecnica delle interviste per determinare posizione e spostamenti nel tempo delle persone potenzialmente contagiose, fossimo in grado di accedere direttamente a queste informazioni avremmo i dati immediatamente, senza possibilità di errori, e saremmo in grado di individuare ed avvertire in tempo reale, attraverso gli stessi smartphone, le persone che sono entrate in contatto con loro, invitandole a comportamenti che non mettano a rischio la loro salute e quella degli altri, e bloccando di fatto la diffusione della malattia, con semplicità e rapidità.
Il vero problema però è che questi dati non sono nella nostra reale disponibilità, siamo nel terribile paradosso per cui noi produciamo dei dati con i nostri comportamenti quotidiani, li cediamo ad aziende private che ne fanno un uso commerciale aiutandoci a scegliere un prodotto o proponendoci una vacanza, ma questi dati non possono essere utilizzati da quegli enti dello Stato che invece stanno lavorando per salvarci la vita e che attraverso quei dati potrebbero migliorare enormemente la loro efficienza.
La situazione si complica ulteriormente quando dai semplici dati geografici proviamo a spostare l’attenzione sui dati sanitari rilevati da altri tipi di dispositivi personali indossabili come gli smartwatch dispositivi in grado di rilevare il battito cardiaco, la temperatura corporea, la pressione arteriosa e di effettuare veri e propri elettrocardiogrammi. Questi dati vengono solitamente utilizzati per costruire una sorta di profilo sanitario dell’utente e in alcuni casi hanno contribuito ad individuare precocemente qualche problema di salute.
È del tutto evidente che, durante l’azione di contrasto di un’epidemia potrebbe essere utile, per chi se ne occupa direttamente, sapere che in certe zone del territorio nazionale ci sono numeri anomali di persone con parametri vitali fuori norma o fuori statistica.
Tutte queste informazioni, date in pasto ad algoritmi tradizionali, senza bisogno di scomodare l’intelligenza artificiale, potrebbero fornire un grande aiuto alle nostre capacità di affrontare un’emergenza sanitaria su scala nazionale, ma purtroppo, nonostante siano prodotte da noi, non sono nelle disponibilità degli enti che potrebbero usarle come strumento utile a salvare le nostre vite.
Nel prossimo futuro sarà importante affrontare questi temi su scala internazionale, individuare le modalità con cui far convivere le norme che tutelano la nostra privacy con eventuali esigenze eccezionali che dovessero verificarsi. Sarà essenziale aggiungere al concetto di “data monetization” un più moderno concetto di “data sustainability” per fare in modo che l’insieme dei dati che produciamo come individui possa essere utilizzato in varie modalità, tutelando il più possibile la nostra riservatezza, per aiutare le autorità in situazioni eccezionali in quei processi che hanno l’obiettivo di salvare le nostre vite.
Non sarà facile, le norme attuali sembrano non concedere grandi spazi in questa direzione, anche il DL 14 del 9 Marzo 2020 “Disposizioni urgenti per il potenziamento del Servizio sanitario nazionale in relazione all’emergenza COVID-19” che consente alle istituzioni la raccolta direttamente dalla popolazione dei dati personali che si ritengono utili, anche quelli definiti più sensibili (dati biometrici e informazioni su condanne penali e reati), fa unicamente riferimento alla possibilità di gestire in modo semplificato l’autorizzazione e di omettere l’informativa.
Quel che andrebbe fatto invece è individuare le giuste modalità che consentano alle istituzioni, in situazioni di emergenza sanitaria, l’accesso ai dati prodotti dai cittadini con i loro smartphone e i loro dispositivi wearable, dati che he solitamente sono utilizzati per fini di profilazione commerciale, in modo che possano essere utilizzati per aiutare i cittadini stessi, consentendo loro di non ammalarsi, di non contagiare il resto della popolazione e spesso salvando loro la vita.
Bisogna arrivare a concepire un modello in cui se il dato può contribuire a salvare la vita delle persone, allora quel dato deve poter essere responsabilmente utilizzato.