Leopoldo Elefante, cent’anni a gennaio, ha percorso tutto il Novecento superando indenne le tante sciagure. Nato alla fine dell’epidemia “spagnola”, che ha segnato l’Italia e l’Europa nel primo ventennio del secolo scorso, nonno Leopoldo ha vissuto in pieno la seconda Guerra Mondiale. Un conflitto che ha vissuto al fronte, in prima linea, indossando la divisa da marinaio e da Sant’Antonio Abate era stato inviato a Taranto a difendere il Paese dagli invasori. Si risvegliò in un letto di un ospedale da campo, era stato ferito da una scheggia di una bomba. Miracolato. «Condanno quel regime disumano. Ai giovani dico di studiare la storia e capire ben cosa sia l’Olocausto.
L’uccisione di massa di esseri umani senza colpa. Noi abbiamo combattuto contro questi uomini mossi dalla sete di potere e senza alcun valore etico né morale», questo il messaggio che Leopoldo Elefante aveva lanciato ai giovani nel giorno del suo centesimo compleanno. Perché la guerra ti cambia e anche Leopoldo aveva fatto ritorno a casa, portando addosso i segni indelebili di violenze e tragedie, quelle che lo avevano ridotto a pesare appena 48 chili. Pochi, troppo pochi per un ragazzo che era alto un metro e ottanta. Irriconoscibile. Ma Leopoldo era tenace e non si è dato mai per vinto. La sua forza ha fatto scuola a tutti, diventando così un punto di riferimento per la sua comunità. Altruista ma anche autoritario. Lui non ha mai perso la fede e quella forza l’ha trovata «solo e soltanto nei valori. Quelli che si stanno perdendo, per questo Dio ci ha mandato questa grande punizione chiamata coronavirus, perché ci siamo distratti, perdendo il senno.
La famiglia deve essere sempre al primo posto», replica Leopoldo con sguardo deciso. I suoi occhi hanno visto grandi bellezze ma anche grandi mali. Occhi che si rattristano quando si ritorna indietro nel tempo e si riavvolge il nastro fino agli inizi degli anni Settanta, quando il Sud Italia divenne un grande Lazzaretto, e i meridionali erano etichettati come “colerosi”. Un’etichetta che, purtroppo, è rimasta e che in qualche caso, come negli stadi, viene sbandierata come un’offesa. «Non è un’offesa sentirsi dare dal “coleroso”, dovrebbe piuttosto offendersi chi pronuncia queste parole senza sapere neanche di cosa parla. Ancor più grave se direttamente o indirettamente ha vissuto il periodo del colera, dove i funerali erano silenziosi e talvolta dietro il carro funebre non c’era no neanche i parenti. Che ne sanno quelli che non lo hanno provato – incalza nonno Leopoldo – Non sono stato segnato da questa epidemia, per fortuna. Riuscivano a evitare possibili contagi grazie alla campagna, perché mangiavano soltanto ciò che coltivavamo. Ma ho visto quanto accadeva intorno e non è stato un bello spettacolo». L’estate da incubo del ’73 passa e il vaccino per il colera da buoni risultati. Un’epidemia che, diversamente dal Covid, era circoscritta nella zona meridionale dell’Italia ma non certo meno mortale. Ma la vita è ritornata presto alla sua quotidianità, almeno per altri sette anni. E’ la sera del 23 novembre del 1980 e la terra trama. Trema forte e sotto le macerie restano centinaia e centinaia di persone.
Il sisma dell’Irpinia fa danni e morti. «La mia casa non fu danneggiata, ma tanti miei vicini dovettero lasciare la propria abitazione. Allora mi adoperai e edificai due serre grandi nel mio terreno: in una erano disposti i letti e nell’altra una grande tavola per pranzare e cenare – racconta il centenario Leopoldo – Soltanto la solidarietà, il bene e soprattutto i valori possono salvarci. Potremmo salvarci anche dal Covid se ritorniamo a dare valore alla famiglia».