di Felice Bellona*
I detrattori della memoria, quelli a cui le celebrazioni degli anniversari provocano l’orticaria, non faranno sconti neanche oggi, a ventotto anni dalla strage di Capaci in cui perirono oltre al “giudice più bravo d’Italia” (come lo definì Claudio Martelli, all’epoca ministro di Grazia e Giustizia), sua moglie Francesca Morvillo e gli agenti di scorta Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Di Cillo. Del resto, Giovanni Falcone in vita dovette convivere con i numerosi tentativi di offuscarne l’operato, sulle prime provenienti dalle stanze degli uffici giudiziari e poi di seguito tracimati in quelle del potere. Per questa ragione, non è così sicuro che il ricordo del magistrato, che dedicò la propria vita alla lotta contro la mafia e della mafia fu il principale nemico, riscaldi i cuori di tutti.
Perché, come avviene per la quasi totalità degli omicidi illustri e delle stragi politiche che insanguinarono il Paese, la rievocazione di quei fatti lontani spesso porta con se anche la incessante domanda di giustizia circa la identità dei carnefici e dei mandanti e, di conseguenza, infastidisce chi si sente chiamato in causa.
Certo, dal punto di vista giudiziario ci sono condanne definitive a carico di vari affiliati a Cosa nostra, ma qualcosa ancora manca. Non c’è la prova della complicità con settori dello Stato, dall’intelligence ai referenti politici, che discende dall’esame della dinamica dell’agguato, incline a suscitare molti interrogativi per la facilità con cui gli assassini raggiunsero il bersaglio. Per quanto non sia stata mai messa in discussione la capacità militare di Cosa nostra, infatti, è indubbio che la logistica dell’attentato e, soprattutto, il ritorno imprevisto, quel sabato pomeriggio, dei coniugi Falcone a Palermo (con un aereo del Sismi e piano di volo segreto) abbiano costituito variabili indipendenti non preordinate dai responsabili dell’azione criminosa. D’altra parte, già tre anni prima,quando Falcone era scampato all’attentato dell’Addaura (la villa al mare dove avrebbe dovuto ospitare i magistrati svizzeri Carla Dal Ponte e Claudio Lehmann), si era avuta una prova mirabile dell’esistenza del coacervo di entità note ed ignote, che indusse il giudice ad attribuire la paternità dell’accaduto a “menti raffinatissime”. E, naturalmente, anche allora vi fuchi non volle avere occhi per vedere, ma preferì calunniare la vittima, accusandola di protagonismo e tacciandola ancora di quel professionismo dell’antimafia di sciasciana memoria.
Dunque, se è scontato che, per immaginabili motivi, il ricordo di colui il quale contribuì più di tutti a descrivere il fenomeno mafioso e per primo innovò il modo di condurre le indagini sulle criminalità organizzate – si deve a Falcone, in buona sostanza, la costituzione di organismi dedicati all’antimafia, quali l’interforze investigativo (Dia) e il coordinamento delle procure distrettuali (Dna) – risulti indigesto agli uomini dell’onorata società, è altrettanto certo che sia sgradito a qualcuno che ha ricoperto e, forse,ricopre ancora adesso un ruolo importante nel tessuto connettivo delle istituzioni. E in questa veste, seppure invisibile, sarà sempre costretto all’angolo dalle idee e dalle tensioni morali che non sono scomparse con la morte degli uomini e delle donne uccise dalla mafia, ma restano,perché, proprio come amava dire Giovanni Falcone, camminano sulle gambe di altri uomini e di altre donne.
(Avvocato)