Di Felice Bellona*
Perché Luca Palamara è indifendibile dall’accusa di aver leso l’onore e il decoro della magistratura? Per un motivo molto semplice:perché l’essersi prodigato tra le correnti associazionistiche di categoria per la spartizione di nomine e poltrone non risponde al contegno cui il magistrato è tenuto anche quando non esercita la funzione giurisdizionale, anche quando non lavora. E’ tutta qui la risposta ed è sotto gli occhi di chiunque voglia avere ancora la voglia di spendere le proprie energie per ragionare senza infingimenti su un altro esempio del malcostume italiano. Sconcerta, quindi, che si tenti – e non soltanto da parte del diretto interessato – di capovolgere il problema evocando una pratica non nuova tra i giudici oppure chiamando in correità la classe politica attuale e passata, di certo più avvezza per natura e definizione agli scambi sottobanco.
Ora, è anche vero che nel caso in questione non ci siano ancora condanne, sia deontologiche sia penali, così come è vero che tutti siamo innocenti fino a prova contraria e sentenza definitiva, ma è indubitabile che il contenuto delle intercettazioni del suo telefono ponga il magistrato romano dinanzi alla presa d’atto di esser diventato incompatibile con il ruolo professionale ricoperto. Perché, al di là del peso specifico dell’attività di lobbing esercitata senza ritegno e, peraltro, pure in vari ambiti (resta da capire, ad es., che aderenze potesse mai vantare Palamara presso le istituzioni del calcio per far si che un famoso ex calciatore gli si raccomandasse per la guida di una delle nazionali giovanili), è evidente che tali comportamenti finiscano per condizionare l’integrità di chi li pratica, distorcendo l’approccio mentale del giudice alla professione.
Il rischio, infatti, ma solo per chi voglia percepirlo come tale, è che la ricerca del consenso, attraverso l’elargizione di favori al solo scopo di consolidare una rendita politica di posizione, diventi attitudine al compromesso che rivela, però, un’attitudine incompatibile con la giurisdizione. Perciò, non dovremo mai stancarci di ricordare la solitudine del giudice evocata da Piero Calamandrei o il racconto della dea bendata dall’Antologia di Spoon River di Edgard LeeMasters, per rendere il significato dell’argine terribile ma essenziale sul quale il giudice è costretto ad operare.
A questo punto, la domanda nasce spontanea, avrebbe detto qualcuno: è giusto che Palamara si dimetta da giudice dopo essere già stato espulso dall’ANM? Credo di sì e dovrebbe anche farlo al più presto. Il paradosso, nel caso lo facesse, starebbe nella scelta della nuova professione, che, quasi sicuramente, sarebbe l’avvocatura; del resto – e non c’è naturalmente nulla di male – è questo l’approdo per la quasi totalità di coloro che tra i magistrati decidono di interrompere la carriera. Ed è un paradosso, perché esercitare la professione di avvocato non è poi così diverso dall’essere magistrato, in termini di onorabilità e decoro. Ma questa è un’altra storia.
(*Avvocato)