Il primo scudetto del Napoli, una squadra di gregari e talenti, un fuoriclasse assoluto, un tecnico all’antitesi del suo n.10. Fra i tanti che hanno avuto un rapporto contrastato e hanno voluto bene a Diego Maradona, a soffrire piu’ di tutti è certamente Ottavio Bianchi. “Mi è davvero difficile parlare di Diego”, dice con la voce rotta l’ex allenatore di quell’impresa tricolore. Fu suo allenatore al Napoli del primo scudetto nel 1987 e oggi ne parla quasi come di un figlio perso. Non si possono immaginare due persone diverse come loro due: se il tecnico era riservato, quasi silenzioso, metodico, ordinato e disciplinato, il campione ne era l’esatto contrario: chiacchierone, disordinato, indisciplinato, allegro e disincantato, esuberante oltre ogni limite. Tanto che la leggenda tramanda che El Pibe chiamasse ironicamente il tecnico ‘Settimio’, tranne poi proporre alla squadra di dedicargli la vittoria quando era assente dalla panchina. I rapporti fra i due “erano esclusivamente legati al campo” ricorda l’ex tecnico bresciano, oggi 77enne, entrato anche lui nella storia del Napoli prima come giocatore e poi come allenatore. “Con Maradona avevamo un rapporto molto bello sul campo, ma fuori non avevo la possibilità di intervenire, non mi potevo permettere. Qualche volta – racconta Bianchi al telefono con l’ANSA – quando eravamo da soli, ci confrontavamo, parlavamo più apertamente, lui mi diceva qualcosa della sua vita personale, su questo o su quell’altro, allora io mi permettevo di dirgli ciò che pensavo, gli dicevo forse questo è meglio o questo no”. Bianchi conserva “il rammarico per non essere riuscito a fare qualcosa di più” per Maradona sul piano extracalcistico, “ho provato a fargli cambiare rotta” dice, ma ha anche la consapevolezza del suo limite: “non ho un modo per entrare nella testa delle persone, e poi non era mio compito. Forse non sono stato all’altezza, ma comunque sarei stato una goccia nell’oceano e non potevo sortire nulla di buono”, perchè fuori dal campo la vita di Maradona era imprendibile. “Quando tentavo di rimproverarlo, mi ascoltava con gli occhi bassi. Ricordo che gli dissi che rischiava di finire male, lui mi guardava e poi mi diceva che la sua vita la voleva vivere con l’acceleratore al massimo. Aveva giustamente la sua personalità, la esprimeva a modo suo, e poi -aggiunge Bianchi- povero ragazzo viveva costantemente sotto pressione. In tutto il mondo, la vita sotto pressione che ha avuto lui non credo abbia avuto eguali non solo nel campo sportivo, ma anche in quello politico e economico. E mi dispiaceva”. Sotto accusa gli eccessi, le frequentazioni pericolose, la troppa disponibilità: “Maradona dava il massimo in campo, ma anche fuori, con chiunque avesse a che fare con lui, anche con le persone non positive. Diego era grande nelle cose semplici, molto disponibile con i giovani e i suoi compagni”. Oggi, ferito profondamente da questa morte inaspettata, in Bianchi affiora anche la domanda: “potevo fare qualcosa di più?” e aggiunge “mi viene in mente un detto delle mie parti, per i padri è molto più facile dire dei sì ai figli. Forse se gli avessimo detto qualche no, le cose sarebbero andate in modo diverso, e non avrebbe avuto tanti problemi, ma è una mia idea, dettata dall’amarezza del momento. Quando succedono certe cose si va sempre a vedere cosa si poteva fare. Ma era difficile fuori dal campo dire a Diego cosa doveva fare e cosa no, non potevo permettermi di dargli degli indirizzi”. Oggi resta il ricordo affettuoso di “un ragazzo umile” nonostante fosse Maradona, “un bravissimo ragazzo. Quando andava fuori era talmente osannato, pressato, nessuno poteva essere come lui. Ma al nostro interno era un bravissimo ragazzo. Lo ricorderò così”.
SPORT
26 novembre 2020
Bianchi: “Quando davo consigli a Maradona lui mi diceva che voleva fare la sua vita”