Se la variante inglese del virus sarsCoV2 preoccupa per la velocità con cui in una manciata di mesi ha guadagnato spazio in tutta Europa e in buona parte d’Italia, il virus continua a cambiare e riserva nuove sorprese: dopo avere modificato il suo aspetto esterno, comincia a modificare una delle proteine che si trovano al suo interno, la proteina N che aiuta il suo materiale genetico a rimanere stabile. E’ un cambiamento atteso: “non sorprende”, osserva l’immunologo Sergio Abrignani, dell’Università Statale di Milano; “è una situazione fluida e in continua evoluzione”, dice il virologo Francesco Broccolo, dell’Università Bicocca di Milano.
“Il SarsCoV2 muta relativamente poco rispetto ad altri virus, come quello dell’influenza, ma come tutti i virus muta. Per questo – rileva Abrignani – dovremo confrontarci con le varianti. Le mutazioni sono sempre un fatto quantitativo e, nel caso del SarsCoV2, le più frequenti avvengono nella proteina S”, ossia nella proteina Spike con la quale il virus si aggancia alle cellule e che è anche all’origine delle altre due varianti in circolazione nel nostro Paese, la sudafricana e la brasiliana. La proteina N si trova invece all’interno del virus e il suo compito è garantire la stabilità del materiale genetico, il filamento di Rna: “per questo motivo il gene N, contrariamente al gene S, è molto più conservato”, dice Broccolo. “Nelle tre varianti in circolazione in Italia sono infatti descritte due mutazioni puntiformi del gene N, mentre nel gene S ben nove”. Ciò non toglie che il gene N possa cominciare a modificarsi, accumulando mutazioni che potrebbero portare a nuove varianti. A spingere i virus verso le mutazioni è sempre lo stesso motivo: “avere dei vantaggi competitivi”, osserva Abrignani.
Vale a dire che il virus potrebbe “sfuggire meglio al sistema immunitario, agganciarsi meglio alle cellule, replicarsi o assemblarsi meglio”. Per Abrignani davanti a una nuova variante le cose da fare sono: “guardare quanto sia più aggressiva e letale, se viene riconosciute dagli anticorpi generati dai vaccini, la capacità di individuarle con i test”. A questo proposito Broccolo rileva che, “sebbene sia accertato che a carico della proteina N viene descritto un numero limitato di mutazioni, resta comunque evidente che il test molecolare è basato sulla ricerca di più obiettivi ed è quindi più affidabile, mentre i test antigenici di laboratorio, a chemioluminescenza, e quelli di terza generazione hanno come target la proteina N, che ha subito poche mutazioni, ma se cominciasse a mutare più frequentemente si potrebbero avere dei falsi negativi. Serve comunque la conferma dei test molecolari”. Quanto alla variante inglese, secondo Abrignani “non c’è al momento alcun dato solido che dimostri che si diffonda più facilmente nei giovani: è più infettiva, come dimostrano i dati britannici recentemente pubblicati. Ma non è questa la cosa che turba, è piuttosto la maggiore letalità. Per questo – conclude – vacciniamoci più in fretta possibile”.