Le pareti della sezione del Pd di Torre Annunziata sono rivestite di mattoncini rossi. Sanno un po’ di proletariato e richiamano in qualche modo falce e martello, vecchi simboli di una fede sbiadita e tradita. Se te li sogni di notte, cabala alla mano, devi giocarti il 23, significa che ti aspettano «avventure piacevoli», ma se i sogni diventano incubi allora buonanotte al secchio, il numero diventa 90 e le avventure diventano gironi dell’inferno.
C’è puzza di mazzette a Torre Annunziata, ed è inutile fare giri di parole per fotografare la realtà, un fetore che fa schifo proprio come quello della camorra. Sembra essere ripiombati negli anni della Tangentopoli Oplontina, si ha la sensazione che tra il passato e il presente ci sia stata solo una lavata di faccia che non ha cambiato il corso della storia. La subcultura dell’illegalità è rimasta viva, subdola e strisciante nei tortuosi crocevia della politica torrese. Stavolta il Pd è al centro della bufera e rischia di essere spazzato via per sempre. Da mesi l’ex capo dell’Ufficio tecnico di Palazzo Criscuolo è in carcere, da ieri anche l’ex vicesindaco, finanziere di professione, non è più un uomo libero, incastrato dai suoi stessi colleghi della Guardia di Finanza che da mesi continuano a collegare fatti, date e nomi per tessere la tela dell’indicibile. A leggere gli atti si può immaginare che non sia finita qui. Che altri pesci finiranno nella rete.
Del resto, Nunzio Ariano e Luigi Ammendola non sono marziani atterrati a Fortapàsc, sono il prodotto di una classe politica e dirigente involuta, restia ad interrogarsi, pronta a riciclarsi, attenta a poltrone e interessi, per nulla interessata al futuro della città. Anche il silenzio assordante di questi mesi va letto in questo senso, la prova che l’inchiesta sulle mazzette legate agli appalti fa paura.
Prima dell’arresto del dirigente Nunzio Ariano, nominato da Giosué Starita e riconfermato da Vincenzo Ascione sulla base di un rapporto fiduciario, il sindaco del Pd aveva messo entrambe le mani sul fuoco in un consiglio comunale burrascoso nel quale rischiava la sfiducia. Disse più o meno così: «Confermo la mia stima ad Ariano e ad Ammendola», una frase che riletta oggi imporrebbe le dimissioni per dignità. Non è sete di giustizialismo, come ha provato a svicolare Vincenzo Ascione in un breve comunicato vuoto e pieno di luoghi comuni, è una questione politica, forse molto più importante di quella giudiziaria che continuerà sui suoi binari.
Invece, in ragione di un garantismo che ha il sapore dell’opportunismo o della paura, il sindaco Ascione s’è affrettato a riconfermarsi sulla poltrona di primo cittadino quasi in concomitanza col tintinnio delle manette ai polsi del suo ex vice. «Resto per continuare il mio lavoro». Come se Ariano e Ammendola non facessero parte del suo “lavoro” politico-amministrativo. Come se lo Spirito Santo avesse calato Nunzio Ariano a capo dell’Utc e Luigi Ammendola sulla poltrona di vicesindaco. L’impressione è che ci sono interessi e intrecci da tutelare, una tornata elettorale delicata e complessa all’orizzonte, che il caso Torre Annunziata possa indebolire anche i vertici campani e gli equilibri già labili del partito napoletano. Non è secondario che entrambi gli indagati siano stati benedetti politicamente da Mario Casillo, il consigliere regionale del Pd più votato in Campania. Forse è per questo che l’ordine scattato ieri nelle chat ha zittito quasi tutti. «Serve senso di responsabilità verso il partito», è stato raccomandato. Il che significa: «nessuno scagli la prima pietra su Ammendola». Ma è chiaro che far finta di nulla non è una tattica che può durare a lungo, anche perché l’inchiesta va avanti e come ha detto a Metropolis il nuovo vicesindaco Lorenzo Diana, «a Torre Annunziata gli appalti si sono assegnati con procedure dubbie per anni».
L’ordine di minimizzare è arrivato anche da Marco Sarracino e Leo Annunziata, segretario provinciale e segretario regionale del Pd. Anche loro, politicamente parlando, rischiano di perderci la faccia in questa storia. Loro hanno sempre sostenuto Vincenzo Ascione, e indirettamente anche il suo vice quando l’ala dissidente del Pd ne chiedeva la testa sulla scorta delle chiacchiere che circolavano in città. Pur di non avere spine nel fianco, i due segretari hanno addirittura deciso di mettere il bavaglio alle voci fuori dal coro, e hanno commissariato il partito per zittire il dissenso.
Ora però il disastro è lampante. Il fallimento politico e amministrativo del Pd è sotto gli occhi di tutti. La fiducia tra l’amministrazione e i cittadini stessi è saltata in aria. Vincenzo Ascione al massimo può sperare di tirare a campare per un altro anno ma dovrà dimenticarsi il secondo mandato. E anche il Pd dovrà sparire, a meno che non trovi il coraggio di processarsi, a costo di ricominciare dalle macerie, di perdere posizioni di potere e portatori di voti. Certo, servirebbero uomini coraggiosi. Anzi, giovani coraggiosi. A loro dico di guardare laggiù, in fondo alla sala del circolo coi mattoncini rossi, dietro il pulpito dal quale, fatti alla mano, s’è predicato bene e s’è razzolato male. C’è una cornice inchiodata al muro e dentro la foto di Berlinguer. Quasi quarantuno anni fa il segretario del Pci aprì la Questione Morale, nessuno l’ha seguito. Diceva: la rettitudine della politica o niente. A costo di sparire. Finora le parole di Enrico sono state perle ai porci. Anzi, quattro decenni dopo la politica non solo resta ostaggio della corruzione ma s’è ammalata di omertà, complicità e incapacità.