Monsignor Tommaso Caputo ci accoglie in uno dei salottini della Prelatura al primo piano del Santuario della Vergine di Pompei. La luce che entra dalla finestra in una splendida giornata di sole nel pieno del mese di Maria riflette sul crocifisso che spicca sul suo abito nero. Il Vescovo ci porge due Rosari benedetti e il libretto delle preghiere che recitava il Beato Bartolo Longo, le cui virtù sono ancora oggi le fondamenta della città Mariana, meta di migliaia di pellegrini da tutto il mondo e simbolo di carità cristiana. Tra le righe si scorgono valori trasversali, guide insostituibili per credenti e non. E’ una chiacchierata profonda durante la quale il Vescovo tocca tutti i temi drammatici che segnano la nostra esistenza. La barbarie della guerra, che non uccide solo in Ucraina; Il dolore per le umiliazioni che patiscono gli ultimi; Il tragico smarrimento di valori e di ideali. Sono parole di denuncia ma anche di grande speranza per un Rinascimento dell’anima che può cambiare la nostra terra e il mondo.
Le immagini atroci della guerra in Ucraina si aggiungono alle altre che testimoniano indicibili violenze perpetrate su uomini, donne e bambini in molti altri angoli della terra. Onestamente, è sempre più difficile scorgere l’amore tra tanta barbarie.
Ogni guerra fa calare l’oscurità sul mondo e sull’umanità e quel buio rende difficile vedere l’amore, che pure continua a vivere finanche nell’infuriare della battaglia. Quello in Ucraina è uno dei cinquantanove conflitti attualmente in corso nel mondo. Un numero spaventoso. Eppure la fede non ci fa perdere la speranza. Se noi non credessimo in un mondo diverso che senso avrebbe la nostra preghiera? E, invece, proprio in Santuario, accogliendo le parole che Papa Francesco ha pronunciato nell’Udienza Generale del 23 febbraio scorso, alla vigilia del conflitto in Ucraina, stiamo pregando in maniera incessante per la pace. Il Santo Padre ci ha detto che, insieme al digiuno, la preghiera è l’arma di Dio contro la pazzia della guerra. Ed è significativo che la preghiera, in particolare il Rosario, si elevi proprio nel Santuario di Pompei, la cui Facciata, inaugurata il 5 maggio 1901, è dedicata, per volontà del Fondatore, il Beato Bartolo Longo, proprio alla pace universale. È sul terreno buono della carità che si costruisce la concordia tra gli uomini. Nelle Opere sociali del Santuario abbiamo accolto, complessivamente in questi mesi, venti rifugiati, donne e bambini ucraini in fuga dalla guerra, rendendoci disponibili a nuovi arrivi. Inoltre quindici bambini ucraini seguono ogni giorno le attività del Centro di accoglienza oratoriale semiresidenziale “Bartolo Longo”.
Papa Francesco ha rivolto le sue preghiere alla Vergine di Pompei, affidandole l’ardente desiderio di pace proprio nel giorno della Supplica. Ci invita a fare una cosa apparentemente semplice, ma che presuppone coraggio e forza: scommettere sull’umanità, proprio come ha fatto e continua a fare Dio.
L’8 maggio il Papa ci ha esortato a pregare ogni giorno il Rosario per la pace affidando alla Madonna, attraverso la Supplica, “l’ardente desiderio di pace di tante popolazioni”. La morte in croce di Gesù è testimonianza perenne della fiducia di Dio per l’uomo al quale, pur gravato dal peccato, non è preclusa la via della salvezza. È chiaro che questa è la logica di Dio, divergente da quella umana che spesso è agli antipodi. Dovremmo fare nostro lo sguardo di Gesù, uno sguardo pieno di perdono e di misericordia, per scommettere ancora sull’umanità.
Il Pontefice ha voluto anche ricordare l’intuizione originaria di Pompei, cioè la nascita di una comunità intorno alle opere di carità cristiana, come immaginò Bartolo Longo all’alba del Novecento. Come lei ha ricordato, la carità restituisce speranza all’umanità. Il problema è che la carità diventa ogni giorno una virtù sempre più rara.
Pompei però dimostra il contrario. Forse la carità, che è l’altro nome della parola “amore”, resta nascosta e non fa notizia perché è molto più mediatico l’episodio negativo e drammatico. Durante la fase più dura della pandemia, i fragili sono diventati sempre più fragili. Lo attesta, dati alla mano, la Caritas nazionale, ma è una considerazione evidente anche per nostra cognizione diretta: sono aumentati gli utenti delle nostre Opere sociali, in modo speciale della Mensa dei poveri “Papa Francesco” che, ogni giorno, garantisce i pasti quotidiani a centinaia di persone di Pompei e dei comuni limitrofi. Eppure – ed è un segno della Provvidenza divina – più sono cresciute le esigenze delle persone e più sono aumentati gli aiuti che i benefattori hanno affidato al Santuario. Cresce il bisogno, crescono le risorse per dare una mano a chi chiede sostegno. Forse la carità fa poco rumore e non alza la voce, ma non direi che sia virtù diventata più rara.
In questo mondo di disvalori e di indifferenza la sfida più difficile è far capire agli uomini che la solidarietà è il pilastro fondante di un futuro da ricostruire insieme. Che una mano tesa al prossimo diventa una mano tesa a sé stessi. Che l’impegno a favore degli ultimi e dei più deboli deve essere un dovere di tutti.
La pandemia ci ha insegnato che il nostro bene – in quel caso la salute e la vita – è strettamente legato al bene altrui. Resteranno nella storia dell’umanità le parole che Papa Francesco ha pronunciato, il 27 marzo 2020, pregando da solo in una Piazza San Pietro vuota: “Non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri, e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato”. Se il mondo è ammalato lo siamo anche noi. Non abbiamo altra strada che mettere da parte l’egoismo cercando sempre il bene comune facendo vincere il “noi” sull’io. È lì la nostra gioia.
La guerra. I flussi migratori. La povertà. La fame. La solitudine. Non c’è uomo che dovrebbe sentirsi disimpegnato sul fronte della battaglia per la rinascita dei valori di fratellanza ed inclusione. Lei ha sottolineato quanto poderosa possa essere quella forza che sta nel DNA del Santuario, accanto al quale, uso le sue parole, sorgono come una corona di rose opere sociali per l’accoglienza di minori e adulti in difficoltà.
A Pompei la preghiera diventa azione quotidiana per alleviare le sofferenze dei fratelli che tocchiamo nella loro carne viva. Qui cerchiamo di lenire le ferite dell’umanità più fragile contribuendo a formare i bambini e gli adolescenti, provenienti da contesti di disagio sociale, educati nel Centro “Bartolo Longo” e nel Centro “Beata Vergine”; curando le necessità delle donne sole e dei piccoli accolti a Casa Emanuel; soccorrendo i poveri tra i poveri che ogni giorno trovano un pasto quotidiano nella Mensa “Papa Francesco”; sostenendo l’accoglienza delle cinque case famiglia del Centro “Giovanni Paolo II”; supportando l’azione di contrasto alla tossicodipendenza, portata avanti nella Comunità Incontro. Sull’esempio del Beato Bartolo Longo, cerchiamo di non voltarci dall’altra parte dinanzi alla sofferenza dei fratelli. È proprio nei poveri che possiamo vedere, ben riconoscibile, il volto di Dio ed è proprio sull’amore che un giorno saremo giudicati.
Pompei può essere centrale nel nuovo Rinascimento della società. Perché Pompei non è solo l’intuizione di Bartolo Longo. Pompei è, per esempio, anche Monsignor Francesco Saverio Toppi, frate minore Cappuccino che fu Arcivescovo di Pompei fino al 2001. Non è un caso che Papa Francesco abbia autorizzato la Congregazione delle Cause dei Santi a promulgare il decreto riguardante le sue virtù.
Il 20 gennaio 2022, nel corso dell’udienza al Cardinale Marcello Semeraro, Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, Papa Francesco ha autorizzato la promulgazione del Decreto riguardante le virtù eroiche di Monsignor Francesco Saverio Toppi, religioso dell’Ordine dei Frati Minori Cappuccini e Arcivescovo-Prelato di Pompei dal 1990 al 2001, al quale, con la decisione del Santo Padre, è stato riconosciuto il titolo di Venerabile. È una notizia accolta con grande gioia dalla Chiesa di Pompei e dai devoti della Madonna del Rosario, un evento di fede che ha fatto entrare Monsignor Toppi, ancora una volta, nella storia della Città mariana. Con il riconoscimento del titolo di Venerabile, la Chiesa ci propone l’esempio di Monsignor Toppi perché, nella sua scia, possiamo incamminarci anche noi verso la gioia del Paradiso. Monsignor Toppi è stato un maestro di umiltà e di preghiera e la Chiesa di Pompei subito riconobbe, in quel vescovo mite e paterno, un autentico maestro di fede, guida nel camminare lungo le vie della carità e dell’accoglienza.
Al di là degli incarichi e dei titoli, lei resta un uomo di questa terra bellissima e per certi versi maledetta. Ed è innegabile che qui, più che altrove, la sofferenza è amplificata dal disagio sociale dovuto alla povertà, alla disoccupazione, all’emergenza criminale, alla dispersione scolastica e alla corruzione, che in certi casi costringe persino a commissariare le amministrazioni comunali.
È una terra meravigliosa, ma anche affetta da gravi patologie sociali: la povertà diffusa, la mancanza o la precarietà del lavoro, la dispersione sociale acuita dagli anni di pandemia e dalla corruzione. È essenziale riprendere in mano, a cominciare dalla scuola, l’educazione alla legalità e al bene comune sull’esempio del Beato Bartolo Longo che, come San Giovanni Bosco, voleva formare onesti cittadini e buoni cristiani. Tutto comincia lì, dai banchi di scuola. Non a caso il Beato fondò, nel 1892, l’Istituto per i figli dei carcerati e, nel 1922, l’Istituto per le figlie dei carcerati. Intendeva spezzare quella catena che univa padri e figli in una sorta di staffetta generazionale del malaffare.
Ricostruire il nostro futuro, ricostruire la nostra terra, significa inevitabilmente ridare speranza ai giovani, indicare loro la luce in fondo al tunnel. Come lei ha detto: “Gli occhi di chi ritrova la speranza scorgono anche nella notte più buia una luce e vedono già il chiarore di un nuovo giorno”.
Tengo a dire che non sono parole di circostanza, ma che davvero un altro mondo è possibile e che le luci della speranza sono visibili anche nella notte più buia. La Chiesa deve liberare gli occhi dei giovani, ma anche dei loro padri e delle loro madri, dalle tenebre che producono disfattismo. Quattro anni fa lanciammo “Un mestiere per il futuro”, un progetto sostenuto con i fondi dell’8xmille che la Caritas nazionale ha assegnato alla Caritas di Pompei. È un progetto che ha come obiettivo l’accompagnamento sociale e formativo di ragazzi a rischio di esclusione sociale. Questi giovani sono stati formati, hanno appreso le competenze per poter lavorare e lo scorso 18 maggio, nonostante gli ostacoli rappresentati anche dal periodo pandemico, è stato inaugurato un Centro estetico che gestiranno le prime ragazze che hanno raggiunto il diploma. È un esempio di nuovo giorno che irrompe nel buio della notte.
Tra le immagini più toccanti degli ultimi due anni c’è la solitudine di Papa Francesco nel deserto di piazza San Pietro, ci sono le vite chiuse dentro i sacchi neri, ci sono le lacrime nelle tristi sale degli abbracci. Quanto basta a riscoprire la bellezza della vita e l’importanza della comunità. Il dubbio è: abbiamo imparato la lezione o no?
Si dimenticano purtroppo presto anche le peggiori sofferenze, da cui spesso non si impara. Non ragionerei però in termini generici, ma personali. C’è chi ha imparato dalla sofferenza di questi anni e c’è chi forse è divenuto peggiore, ancora più chiuso nel suo egoismo. Qualcuno ne è uscito migliore, altri no. È compito anche della Chiesa indicare a tutti la strada partendo da una certezza: Dio ci ha creati per la gioia e non la tristezza. È sempre possibile riscoprire la bellezza della vita, un obiettivo che ha un presupposto indispensabile: lavorare insieme. Fuori dalla comunità, fuori dalla famiglia umana, non c’è spazio per una gioia piena. Mancherebbe sempre qualcosa.