Un tumore difficile da trattare e che nel 2020, solo in Italia, ha fatto registrare 41.000 nuovi casi. Il cancro al polmone e’ una delle neoplasie che spaventano maggiormente ma un approccio inedito che ha dato risultati molto incoraggianti arriva da nuovi studi presentati al Congresso della Societa’ americana di oncologia clinica (ASCO): la combinazione di immunoterapia e chemioterapia somministrata prima dell’intervento chirurgico (neoadiuvante) funziona nel tumore del polmone in stadio iniziale e può aumentare il numero delle guarigioni. Lo dimostrano i dati aggiornati dello studio di fase 3 CheckMate-816, in cui l’associazione di nivolumab, molecola immunoncologica, e chemioterapia è stata somministrata a persone con tumore del polmone non a piccole cellule operabile. Nei pazienti che, dopo il trattamento con chemioimmunoterapia, ottengono la risposta patologica completa, cioè non presentano più segni di malattia, la riduzione del rischio di recidiva supera l’80%. Non solo. Al Congresso ASCO) sono stati presentati anche i risultati a 3 anni della duplice immunoterapia con nivolumab più ipilimumab, associata a cicli limitati di chemioterapia, cioè due invece dei ‘classici’ quattro o sei, in prima linea nel tumore del polmone non a piccole cellule metastatico. Nello studio CheckMate -9LA, il 27% dei pazienti trattati con questo approccio è vivo a tre anni rispetto al 19% con la sola chemioterapia.
“Troppo spesso la malattia è scoperta in fase avanzata e le diagnosi in stadio precoce, candidabili all’intervento chirurgico, non superano il 25% – afferma Federico Cappuzzo, Direttore dell’Oncologia Medica 2 all’Istituto Nazionale Tumori Regina Elena di Roma -. I risultati dello studio CheckMate-816, che ha arruolato 358 pazienti, sono davvero significativi e possono ora condurre a una modifica delle linee guida del trattamento in fase precoce. Ad oggi, l’intervento chirurgico è considerato l’unico strumento per ottenere la guarigione definitiva. Una percentuale compresa tra il 30% e il 55% dei pazienti però sviluppa recidiva dopo la chirurgia, confermando quindi una forte necessità di opzioni aggiuntive. Se pero’ l’intervento chirurgico è preceduto da nivolumab più chemioterapia, è possibile ottenere una importante regressione tumorale e una potenziale guaribilità del paziente”. I dati presentati, rileva Cappuzzo, “mostrano infatti la straordinaria capacità della chemioimmunoterapia neoadiuvante di ridurre di oltre l’80% il rischio di recidiva nei pazienti che ottengono la risposta patologica completa. In questo modo possono aumentare le guarigion”.
Inoltre, “aumentano anche i pazienti candidabili all’intervento. Oggi, infatti, i pazienti con malattia non metastatica non operabile sono trattati con la chemioradioterapia, ma l’impatto dello studio CheckMate-816 è tale da poter portare a una modifica nella cura delle persone con malattia localmente avanzata, finora escluse dalla chirurgia”, rileva Cappuzzo. Se nella neoplasia in fase precoce la guarigione costituisce un obiettivo reale, nella patologia metastatica le terapie mirano a migliorare la sopravvivenza a lungo termine e alla cronicizzazione. “A tre anni, è vivo il 27% dei pazienti trattati in prima linea con la duplice terapia immunoncologica, costituita da nivolumab più ipilimumab, in associazione con due cicli di chemioterapia, rispetto al 19% con la sola chemioterapia”, spiega Filippo de Marinis, Direttore della Divisione di Oncologia Toracica dell’Istituto Europeo di Oncologia (IEO) di Milano. I dati dello studio CheckMate -9LA, su più di 700 pazienti, si riferiscono anche a due sottogruppi tradizionalmente a prognosi sfavorevole, caratterizzati da bassa espressione del biomarcatore PD-L1 (inferiore all’1%) e dall’istologia squamosa. Nel primo caso, la sopravvivenza globale a 36 mesi ha raggiunto il 25% rispetto al 15% con la sola chemioterapia, nel secondo il 24% rispetto all’11%. Si rafforza quindi, concludono gli oncologi, il valore di questo schema terapeutico, rimborsato dallo scorso gennaio anche in Italia.
Tumore colon avanzato, cura più efficace se ad intermittenza
Si allunga e migliora la qualità della vita dei pazienti affetti da tumore al colon retto metastatico. Ciò grazie ad una cura che associa un anticorpo alla chemioterapia, ma che viene somministrata non più secondo posologia, ma secondo i casi ad intermittenza. Solo se e quando è necessario, dunque. Questo implica meno effetti collaterali, meno accessi in ospedale, migliore qualità della vita, sopravvivenza libera da malattia che si allunga a 20 mesi rispetto ai 13 del trattamento standard. È quanto emerge dallo studio Improve, tutto italiano e coordinato dall’Istituto dei tumori di Napoli, presentato oggi al congresso della Società americana di oncologia clinica (Asco). La nuova strategia di somministrazione della cura ha avuto effetti positivi su 137 pazienti con tumore del colon retto metastatico, in prima linea di trattamento, arruolati in 14 centri italiani. Dai primi dati è emerso che somministrando l’anticorpo panitumumab con la chemioterapia standard e confrontando la modalità classica di somministrazione continua verso una somministrazione alternata a periodi di interruzione, in questi pazienti è migliorata l’efficacia del trattamento e si sono attenuati alcuni effetti collaterali, come la tossicità cutanea. Lo studio ha dimostrato per la prima volta nel tumore del colon-retto che il trattamento sperimentale intermittente comporta un miglioramento della sopravvivenza libera da progressione. In particolare nei tumori del colon metastatico la sopravvivenza libera da progressione ha raggiunto i 20 mesi con un miglioramento di 7 mesi rispetto alla cura standard. Questi risultati “hanno particolare importanza nella pratica clinica – afferma Antonio Avallone, prima firma dello studio, direttore dell’Oncologia Clinica Sperimentale Addome dell’Istituto Pascale – e assumono particolare rilevanza nell’era della pandemia in quanto tale strategia riduce gli accessi ospedalieri dei pazienti”. Il lavoro nasce dalla collaborazione tra l’Unità diretta da Avallone e quella di Farmacologia Sperimentale Oncologica diretta da Alfredo Budillon co-principal investigator dello studio. Le analisi in corso sui campioni biologici dei pazienti trattati, sottolinea Budillon, “avviate in collaborazione con l’Università Federico II, permetteranno di definire biomarcatori in grado di ottimizzare e personalizzare la nuova strategia terapeutica”.