La crescita dell’occupazione italiana ha raggiunto nei primi mesi del 2022 livelli che non si vedevano da prima della pandemia.
Confrontando il trimestre marzo 2022-maggio 2022 con quello precedente (dicembre 2021-febbraio 2022) si registra un aumento del livello di occupazione pari allo 0,6%, per un totale di 136mila occupati in più.
Tuttavia, è aumentato fortemente il precariato, rimane il divario di genere, il 24,5% dei giovani sono oggi disoccupati ed è in continuo aumento il fenomeno delle “grandi dimissioni”.
Se da una parte oltre 307 mila persone si sono congedate da un contratto a tempo indeterminato, il tasso di occupazione si attesta a marzo 2022 al 59,9%, ma non si tratta di un lavoro stabile.
Effettivamente gli occupati in Italia sono oltre 23 milioni, più di prima della pandemia, ma di questi, i dipendenti a termine sono 3 milioni 150 mila, una cifra che non si si vedeva dal 1977. I dati sono elencati nello studio “Il lavoro in Italia: le sfide di dipendenti, imprenditori e startupper. Criticità, opportunità e trend futuri” di Rome Business School. Secondo dati Inps, tra gennaio e marzo 2022 sono state attivate 1.865.000 assunzioni, con un aumento del +43% rispetto allo stesso periodo del 2021. La crescita ha interessato tutte le tipologie contrattuali, in particolare le assunzioni di stagionali (+113%) e intermittenti (+85%), seguite da contratti per il tempo indeterminato (+44%) e apprendistato (+43%). Si tratta quindi per la maggior parte di contratti che non offrono stabilità ai lavoratori.
A confronto, gli aumenti nelle altre categorie di assunzioni risultano essere contenuti: tempo determinato (+35%) e somministrati (+29%). Allo stesso modo, sono in aumento anche gli irregolari. E qui entriamo in un mondo parallelo che “vale” 202,9 miliardi di euro e rappresenta l’11,3% del Pil italiano.
Il lavoro sommerso
Secondo un di Confartigianato, è irregolare il 14% dei soggetti che svolgono attività indipendente (3.2 milioni), una quota che rappresenta il terzo settore più numeroso dell’economia italiana. Questi lavorano soprattutto nelle imprese artigiane, edilizia, estetica e autoriparazione. Il fenomeno del lavoro sommerso riguarda tutte le regioni italiane.
Nel Mezzogiorno il tasso di lavoro irregolare sull’occupazione totale è del 17,5%, nel Centro Nord il 10,7% e nel Nord Est il 9,2%. In fondo alla classifica c’è la Calabria, dove non è regolare un quinto (21,5%) degli occupati, seguita da Campania (18,7%) e Sicilia (18,5%). Al contrario, il tasso più basso di lavoro irregolare (8,4%) si registra nella Provincia autonoma di Bolzano (Confartigianato, 2022). Nonostante ciò, nel Nord si annida il maggior numero di evasori che si fingono imprenditori.
La classifica regionale vede in testa la Lombardia, seguita da Campania (121.200), Lazio (111.500) e Sicilia (95.600). A livello provinciale, Roma detiene il primato con 84.000 irregolari, seguita da Napoli (59.500) e Milano (47.400), sono lavoratori non sono autorizzati a esercitare, che non hanno seguito percorsi di formazione né hanno titoli o certificati professionali, e non danno garanzia sulla sicurezza e qualità del lavoro.
La pandemia ha portato con sé dei forti cambiamenti nelle dinamiche del lavoro, tra questi il largo utilizzo dello smart working, un fenomeno che vedrà oltre 10 milioni di lavoratori italiani in mobilità entro la fine dell’anno, ma che ha comportato delle difficoltà in particolare per le donne (31%) secondo l’Osservatorio Nomisma-CRIF.
Divario di genere
Nonostante passi avanti e nuove iniziative, il divario di genere in Italia è tuttora più che presente: la differenza in busta paga fra uomo e donna è del 23,7% contro una media europea del 29,6%, in Italia lavora una donna su due, c’è un’alta percentuale di contratti part time (49,8%), elevata differenza salariale (stimata nel 5,6% dal World Economic Forum, ma per altre rilevazioni Eurostat al 12%), mancata possibilità di carriera (solo il 28% dei manager sono donna, peggio in Europa solo Cipro) e mancato accesso a formazione STEM (il 16% delle donne contro il 34% degli uomini).
L’accesso alla formazione è un fenomeno che tocca anche un’altra parte della popolazione che è particolarmente vulnerabile e lo è stata ancora di più durante la pandemia: i carcerati.
Secondo il 17mo rapporto sulle condizioni di detenzione dell’Associazione Antigone “Il carcere visto da dentro”, la maggioranza dei progetti formativi ha subito una battuta di arresto dovuta al divieto di ingresso di soggetti terzi all’interno dei penitenziari e alla mancata possibilità di effettuare formazione in videoconferenza, a differenza di quanto è invece accaduto per i corsi scolastici. Nel corso del primo semestre del 2020, in Italia, sono infatti stati attivati solo 92 corsi di formazione professionale rispetto ai 203 del secondo semestre del 2019, i partecipanti sono stati 758 rispetto ai 2.506 dei mesi precedenti, di fatto assistendo ad una diminuzione di oltre un terzo degli utenti che vi hanno potuto prendere parte. Non sono solo i partecipanti a diminuire, ma anche il numero di corsi erogati e terminati: a partire dagli anni Novanta dove le percentuali degli iscritti sul numero dei presenti si aggiravano intorno al 7,75% del totale della popolazione detenuta, l’andamento poi è andato via via diminuendo, per raggiungere poi la percentuale dell’1,41% – la più bassa mai toccata – nel secondo semestre del 2020. Questa è una situazione che tocca tutte le Regioni.
Le startup
L’ecosistema delle startup dell’Italia è cresciuto sempre più negli ultimi anni, avvicinandosi al miliardo di capitalizzazione. Secondo il Ministero dello Svi- luppo Economico, a fine 2021 valeva già 938 milioni di euro, con una media di 64.898 euro a impresa.
Tra i diversi settori, quello di servizi alle imprese costituisce la stragrande maggioranza delle startup innovative operanti in Italia (75%), tra le principali sottocategorie d’attività: produzione di software e consulenza informatica (37,4%), attività di ricerca e sviluppo (14,7%), attività dei servizi d’informazione (8,7%), e manifattura (16,6%).
Sempre secondo i dati del Mise, la Lombardia detiene il primato di startup innovative: ben 3.755 startup innovative (il 26,8% del totale), seguita da Lazio (11,6%) e Campania (8,9%). In fondo alla classifica ci sono il Molise e la Valle d’Aosta. Salta all’occhio Milano, provincia che conta 2.640 startup innovative, il 18,8% sul totale delle imprese. Seguono poi con netto distacco Roma (10,48%) e Napoli (4,45%).
Nel 2021 sono +85.000 i lavoratori che hanno trovato impiego nelle nuove imprese, dimostrando il forte impatto delle startup nell’occupazione. I principali settori in cui operano le startup a trazione femminile sono: digital platforms (26%), salute (20%) e circular economy (18%).
Se si guarda alla situazione delle startup a livello europeo, si conferma il 2021 come anno record per investimenti, con una cifra di oltre 100 miliardi di dollari di capitale investito e 100 nuovi unicorni (startup con una valutazione di mercato oltre il miliardo di dollari).
In Italia, a dicembre 2021, tenendo conto di round, crowdfunding e investimenti resi noti ai media da parte di business angels, si arriva alla cifra complessiva record di 1,392 miliardi investiti, nettamente superiore ai 700 milioni del 2019 e del 2020 (+50% circa), secondo Startup Italia.
Anche se queste cifre dimostrano le grandi opportunità che le startup rappresentano, l’Italia ha solo un unicorno (Scalapay) e rimane indietro rispetto l’avanzamento in paesi come il Regno Unito dove solo nei primi nove mesi del 2021, ci sono stati 68 round da oltre 100 milioni di dollari, pari al 37% di tutti i round di questa portata in Europa. A confermare la difficoltà nel creare una startup in Italia sono i dati del Centro studi di Unimpresa (2021) che rivelano che per avviarne una, ci vogliono circa 4.155 euro, una cifra 10 volte superiore rispetto alla Germania (466 euro) e oltre 15 volte maggiore rispetto a quanto si spende in Francia (270 euro), e ben 188 volte in più della Croazia (22 euro).