Sembrava una domenica come tante quel 23 novembre 1980, e invece no. Niente dopo quella domenica fu più come prima. Erano le 19:34 di di 42 anni fa e si stava tutti in famiglia. 90° minuto era terminato da un po’ e in tv trasmettevano il secondo tempo di una partita di serie A, il derby d’Italia tra Juventus e Inter. La mia memoria si è fermata lì, ad un duello a centrocampo in cui ebbe la meglio l’irlandese Brady. Poi la terra tremò. Un boato terribile, che sembrava non finire mai. Fin da subito iniziò la triste agonia della conta delle vittime dalle proporzioni di un vero e proprio bollettino di guerra: 2.914 morti, 8.848 feriti, 280.000 sfollati.Solo 90 secondi durò la scossa di quel terremoto passato alla letteratura come “terremoto Irpino” sebbene sia più corretto definirlo Irpino – Lucano, perché ha colpito anche ampie zone della Basilicata. Il terremoto si sviluppò lungo un’area di faglia dell’ordine di alcune migliaia di chilometri quadrati, enucleandosi ad una profondità di circa 10 chilometri della crosta. La faglia si estese anche in superficie, tanto è vero che alcuni suoi segmenti ebbero chiare evidenze di rottura per almeno 50 chilometri. Si trattò di una vera e propria apocalisse, soprattutto nell’entroterra, dove i soccorsi arrivarono molto, ma molto tardi. Il compianto presidente Sandro Pertini parlò in tv, indignato, di urla di disperati da sotto le macerie, di sepolti vivi, di vittime innocenti certamente della furia della natura, ma anche e questo davvero inaccettabile, ora come allora, della lentezza e dell’impreparazione della “macchina dei soccorsi”.
La magnitudo di quel terremoto fu spaventosa: 6,9 della scala Richter, 10 della scala Mercalli. La ricostruzione post-sisma, poi, è una delle pagine più nere e tristi della nostra repubblica. “Terremotopoli” è il marchio di fabbrica di una speculazione senza fine, che per certi versi continua fino ai giorni nostri benché siano passati ormai ben 42 anni. La politica invece di risolvere il problema, infatti, lo aggravò, come testimoniano tutta una serie di inchieste della magistratura. Durante gli anni si sono inseriti sporchi interessi che dirottarono i fondi verso aree che non ne avevano diritto, moltiplicando il numero dei comuni colpiti: 339 paesi in un primo momento, che diventarono 643 in seguito a un decreto dell’allora presidente del Consiglio della Democrazia Cristiana, Arnaldo Forlani, nel maggio 1981 e che raggiunsero la cifra finale record di 687, ossia quasi l’8,4% del totale dei comuni italiani.
Una bulimia senza fine per i comuni che non ne avevano diritto e che non subirono alcun danno dal sisma e digiuno per i comuni più colpiti, che ancora oggi considerano il 23 novembre del 1980 un atroce spartiacque della loro esistenza.In Irpinia le “Fiamme gialle” scoprirono cascine e fienili trasformati in ville con piscine olimpioniche mai ultimate, individuarono tangenti indirizzate a imprenditori famelici e mazzette devolute a infedeli impiegati dello Stato. Ad oggi, lo Stato Italiano ha versato per la ricostruzione, non ancora ultimata a 42 anni dal sisma, l’equivalente di 66 miliardi di euro, ed è tuttora in vigore perfino un’accisa di 4 centesimi di euro per ogni litro di carburante acquistato per il finanziamento della ricostruzione dei territori colpiti dal sisma.Gli effetti del terremoto, si estesero ad una zona molto vasta della Campania interessando praticamente tutta l’area centro meridionale della penisola: molte lesioni e crolli avvennero anche a Napoli, interessando molti edifici fatiscenti o lesionati da tempo e vecchie abitazioni in tufo; a Poggioreale crollò un palazzo in via Stadera, probabilmente a causa di difetti di costruzione, causando ben 52 morti. Crolli e devastazioni avvennero anche in altre province campane e nel potentino, come a Balvano dove il crollo della chiesa di S. Maria Assunta causò la morte di ben 77 persone, di cui 66 bambini ed adolescenti che stavano partecipando alla funzione religiosa.È paradossale, poi, come a fronte di una ricostruzione costosissima (e mai avvenuta) la città di Napoli debba 114 milioni di euro al Consorzio che lavorò alla ricostruzione edilizia durante il Commissariamento post-terremoto del 1981.
L’ennesima beffa che ha portato più volte il Comune di Napoli vicinissimo al default economico. Come testimoniato da una recente tesi di laurea della quale sono stato co-relatore vi sono ancora impalcature, divenute tristemente “storiche”, istallate a Napoli dal terremoto dell’80, che sarebbero dovute essere provvisorie e che invece sono diventate “paesaggio” cristallizzato ad infausta memoria della nostra incuria e incapacità di far fronte ai problemi. Il quartiere Forcella a Napoli ne è l’emblema: la chiesa di Sant’Agostino alla Zecca, chiusa dal terremoto dell’80 e l’intero “vico dei Tarallari”, vi sono istallate impalcature in varie porzioni del vicolo a sostegno di edifici pericolanti, installate fin dal 1980 e ancora presenti, come se il tempo non fosse mai passato.
Prevenzione possibile ma trascurata Lezione che non ha insegnato nulla, anche oggi molti edifici sono a rischio
Quello che è accaduto nel 1980 avrebbe dovuto spingerci a trovare le tecniche per difenderci dai terremoti; il problema più grande è legato alla vulnerabilità degli edifici che, se non vengono costruiti a regola d’arte, possono subire danni notevoli e causare crolli e la morte di tante vittime innocenti. Anche i centri storici in cui sono ubicati gli edifici più antichi sono molto vulnerabili. Un dato consolatorio raccolto dagli ingegneri all’epoca fu che oltre il 90% degli edifici della zona epicentrale del “cratere” muniti di travi per proteggere la struttura dalle accelerazioni orizzontali non crollò ed ebbe danni solo parziali. L’esatta misura della catastrofe generata dal sisma del 1980 è fotografata dalla complessa valutazione del danno, a oggi ancora non completamente definita. Sta di fatto che gli errori di valutazione iniziali si sono moltiplicati nel tempo, condizionando i processi di ricostruzione a vari livelli e l’attribuzione delle risorse economiche. Per quanto concerne il danno al patrimonio edilizio, risulta che il 74% dei comuni colpiti dal sisma ha subito gravi danni.
Interi nuclei urbani crollati, altri duramente danneggiati. In particolare, circa 20.000 alloggi distrutti o irrecuperabili nei 36 comuni della fascia epicentrale. In 244 comuni (non epicentrali) altri 50.000 hanno subito danni da gravissimi a medio-gravi. Ulteriori 30.000 alloggi sono stati danneggiati in maniera lieve. L’Ingv afferma che sono 362.000 le abitazioni distrutte o danneggiate dal sisma. I numeri raccontano la vulnerabilità di queste aree in cui il sisma irruppe su di un patrimonio abitativo costituito da vecchie costruzioni in muratura ma anche nuove costruzioni in cemento che si dimostrò inadeguato a sostenerne la potenza. Soprattutto nel periodo del boom economico degli anni Sessanta e Settanta, molti costruttori improvvisati e poco attenti alle leggi e alle normative edilizie, urbanistiche e soprattutto tecniche realizzarono edifici che fecero fatica a stare letteralmente in piedi ed inoltre la frenesia di realizzare nuove costruzioni distolse l’attenzione alla manutenzione di quelle più antiche, in muratura che necessitavano (e ancora necessitano) di adeguamenti. Ad oggi cosa è cambiato? Molto è stato fatto in ambito tecnologico ed ingegneristico con modelli matematici sempre più idonei a contrastare l’evento sismico, ma ancora poco, troppo poco è stato fatto a livello politico per mettere in atto quelle buone pratiche di resilienza civile atte a contrastare abusivismo edilizio ed illegalità diffusa che sono i cardini su cui si fondano i disastri annunciati.