Giovanni è nato quando le bombe della seconda guerra mondiale ancora distruggevano le città in mezza Europa. Era il 4 luglio del 1944, i nazisti compivano stragi ad Arezzo a Meleto Valdarno e Castelnuovo dei Sabbioni, 6 luglio: i bombardieri alleati si accingevano a sganciare grappoli di bombe sugli stabilimenti Dalmine provocando la morte di 281 persone, Stalin mette in marcia 57.000 prigionieri nazisti per dire alla Germania che la sconfitta di Hitler è vicina. E’ la fase finale di un’epoca drammatica che purtroppo, a guardare il mondo di oggi, non ci ha insegnato nulla. Giovanni De Martino nasce a Pompei, cresce in un podere a ridosso degli Scavi, una terra che i suoi antenati avevano acquisito quando il Comune non esisteva, quando ancora era una landa desolata abitata da 14 famiglie, divisa tra tre città e due province, prima ancora dell’arrivo di Bartolo Longo nei possedimenti della contessa Marianna De Fusco. Seduto in una poltrona della redazione di Metropolis, Giovanni racconta i suoi ottant’anni con un pizzico di emozione che fa capolino nei suoi occhi. «Nella mia vita ci sono state sempre due stelle polari: mia madre e la madonna». S’è sposato a cinquant’anni con Enza, una donna di Boscotrecase che gli ha donato due figli. «Uno studia ingegneria meccanica, l’altro lingue all’Orientale». Il secondo, racconta, doveva nascere a Castellammare, «ma io ho fatto carte false perché nascesse a Pompei, assumendomi anche la responsabilità di cambiare medico all’ultimo mese di gravidanza». Lo fece perché «nascere a Pompei era una questione campale, una sorta di filo sottile che lega la mia famiglia ad una terra che resterà per sempre nel mio cuore». I suoi avi facevano pascolare pecore e mucche su quaranta ettari di terra dentro quello che oggi è il Parco Archeologico più famoso e visitato al mondo, lui, invece, ha lavorato una vita nella tipografia del Santuario. Anche questo un segno identitario. Giovanni era uno dei poligrafici che saltava da una parte all’altra della rotativa storica, lì, negli stessi locali aperti da Bartolo Longo alla fine dell’Ottocento. Ci mise piede la notte prima del primo maggio del 1972 e ancora ricorda il profumo del primo numero dell’Avvenire. Ricorda tutto, soprattutto la visita di Giovanni Paolo II. «Erano tempi bellissimi, di grandi professionalità e di straordinari intelligenze. Pompei era una scuola. La carta stampata era uno strumento fondamentale per un Paese che attraversava una fase cruciale per la conquista dei diritti sociali e civili», racconta. «Lavoravamo nei locali della prelatura in quella che era una delle tipografie più importanti del Mezzogiorno». Un luogo dove si lavorava sodo, nel quale, tuttavia, si formavano uomini forti e si generava economia. «Ricordo ancora i discorsi del dottor Barbaro, che dirigeva l’Avvenire, ricordo poi Indro Montanelli, che stampava il suo Giornale nella rotativa di Pompei. In pochi anni, diventammo un punto di riferimento per tutto il Paese». Da sindacalista si batté per il miglioramento delle condizioni dei suoi colleghi, tenne intensi rapporti con i vescovi, tentò di preservare un patrimonio storico, culturale e sociale. Poi, il mondo cambiò all’improvviso e il cuore della tipografia che discendeva dall’intuizione geniale di Bartolo Longo smise di battere. «Allora morì qualcosa dentro ognuno degli operai», conclude Giovanni. «Fu una scelta affrettata. Ed ora che ho 80 anni posso dirlo con certezza».
CRONACA
4 luglio 2024
Giovanni, la vita nella tipografia di Bartolo Longo a Pompei