Da ragazzini ci bastavano mille lire appena. Ci infilavamo nei vicoli di Napoli, stringevamo tra le mani una pizza a portafoglio ancora fumante e calda e la divoravamo in piedi. Bastava quello per tuffarsi nella tradizione. Bastava quello per essere felici.
Non era molto tempo fa ma sembra passato un secolo. Erano gli anni Ottanta, il tempo scorreva più lentamente e non avevamo i social. Allora, l’emozione di una pizza apparteneva a tutti, la si viveva a piene mani anche coi portafogli vuoti. Eravamo già lontani dalle immagini in bianco e nero della napoletanità genuina e verace degli anni Cinquanta, però ci avevano trasmesso la magia dell’Oro di Napoli, con Vittorio De Sica alla regia e Sofia Loren pizzaiola tra i vicoli.
Una Dea che friggeva pizze per strada, tra povertà e orgoglio, ironia e senso di sopravvivenza. Anche allora, ancor più degli anni Ottanta, la pizza era rifugio, era speranza, era dignità da divorare con le mani.Non come oggi, che è diventata un lusso. Da un pugno di monete si è passati a 12 euro, ad oltre 17 in qualche caso. E Napoli, patria della pizza, non è più la città più economica, superata da Livorno, Reggio Calabria, Pescara. Oggi, la pizza che era di tutti è diventata un affare per pochi. E forse sta anche perdendo la sua magia.
Ci dicono che gli aumenti sono colpa del caro-energia, del Covid, della guerra. E in parte è certamente vero. Ma non basta per capire cosa sta accadendo. Dietro i rincari insopportabili c’è anche una filosofia miope che è l’altra faccia del boom turistico e si basa sulla tendenza a spremere il visitatore. Una filosofia che rischia di trasformare il food partenopeo, che è sacro e identitario, in un business senza più un’anima. La stessa logica che ha partorito, per intenderci, la “pizza pazza” di Briatore.
Si è passati dalla bottega all’hype, dalla tradizione alla spettacolarizzazione. La magia delle trattorie rischia di sparire, spazzata via dalle catene del gusto, tutte uguali, coi sapori e i format standardizzati, con la fissa della mania gourmet, gli ingredienti esotici, gli accostamenti da alta cucina e, di conseguenza, i prezzi da ristorante stellato.
Ma la verità è che la pizza vera resta povera. Marinara e Margherita. Pomodoro, aglio, olio, basilico, mozzarella. Il resto sono peccati di gola, magari legittimi, ma lontani anni luce dalla storia e dalla cultura che quella pizza incarna.
Un tempo, la pizza era la risposta popolare alla fame. Era del popolo. E questo lo sapevano bene i grandi interpreti dell’anima napoletana. Miseria e Nobiltà di Scarpetta ce lo insegna e ce lo insegnano anche Eduardo De Filippo e Raffaele Viviani.Eduardo mette la pizza al centro della scena come simbolo di una Napoli stremata ma viva, ferita ma in piedi. La pizza, anche nei tempi più bui, resta punto di riferimento. Nelle poesie e nei monologhi la usa come metafora: semplicità contro sofisticazione, autenticità contro l’artificio di una modernità che svuota tutto.
Allo stesso modo Raffaele Viviani, tra versi e scenette, raccontava una pizza che era dei vicoli, dei bambini scalzi, delle famiglie numerose, della fame e della gioia di vivere. Una pizza che parlava il dialetto della gente. Non il linguaggio dei brand.
Eppure, il racconto di quella pizza rischia di sparire. Rischia di lasciare il posto ad una narrazione arida buona solo a soddisfare le apparenze dell’epoca dei post e dei like, dell’epoca delle pizze più improbabili dedicate ad eventi, personaggi o tendenze del momento. Così, la pizza, che fino a ieri rappresentava la semplicità e la genuinità, rischia di diventare star costosa sul palcoscenico delle celebrazioni effimere. Piatti da vetrina, ritoccati coi filtri della modernità che deve essere sempre perfetta e inappuntabile.
Questo trend, e questi prezzi, non fanno che allontanare sempre di più la pizza dal suo significato originale, rendendola una mera trovata commerciale. E forse noiosa.Ma non tutto è perduto. Contro questa corsa al rialzo, contro la logica dell’incasso ad ogni costo, per fortuna, c’è la resistenza silenziosa e nobile degli artigiani veri. Uomini e donne che impastano ancora con lentezza, che scelgono la qualità, che mantengono i prezzi accessibili. Che vedono la pizza come rito, come gesto, come atto d’amore. Non come merce.
Certo, la resistenza diventa ogni giorno più dura, ma è grazie a loro che la pizza resta viva. Non nei listini, ma nelle coscienze. Loro tengono il fronte e difendono un’eredità anche se gli affitti crescono, le materie prime rincarano, e la concorrenza sulla quantità mina la filosofia sulla qualità.
A pagare il prezzo di una trasformazione pericolosa non sono solo i turisti, sono soprattutto i cittadini. Quelli che la pizza la vivono come cena di famiglia, come premio del sabato sera. Quelli che oggi devono scegliere: una margherita o la spesa di un giorno intero.
Di questo passo, si avranno contraccolpi. La qualità che si omologa, i sapori che si scoloriscono. Il rischio è chiaro: per guadagnare oggi, si sta bruciando il domani. E questo è un danno non solo per chi mangia, ma anche per chi lavora. E per il turismo stesso che prima o poi si stancherà del business e andrà alla ricerca delle tradizioni. Magari altrove.
Allora dovremmo provare a remare controcorrente, tornare al significato della pizza di Sofia Loren, povera ma fiera, che raccontava una città intera con un morso. Alla pizza che divoravamo tra i vicoli con una manciata di spiccioli. Un significato che stiamo perdendo lentamente ma che possiamo ancora ritrovare. Magari seguendo il profumo buono di chi, ogni giorno, continua a sfornare pizze per amore. E non per moda.