«Matrimonio all’italiana», quando Eduardo ispirò anche De Sica
CRONACA
20 ottobre 2025

«Matrimonio all’italiana», quando Eduardo ispirò anche De Sica

Luigi Luca Borrelli

È ancora dominante Eduardo, nel 1964. Il suo “Filomena Marturano” (1946) è un dramma teatrale quasi ventenne, la versione cinematografica di qualche anno più tardi ha ormai maturato i suoi quindici anni. Vittorio De Sica sta entrando intanto nell’autunno della sua professione di attore e regista, ma è reduce dal grande successo di “Ieri, oggi, domani” con episodi ben stampati nella testa degli italiani, la cartolina di paese apparentemente unito ma (ancora) profondamente eterogeneo; frammenti tripartiti di un film conteso tra Napoli, Milano e Roma, i grandi poli del paese.  Gli stessi che caratterizzano le macroaree geografiche oggi, ai quali se ne aggiungono tradizionalmente altri tre. Il regista del frusinate, da sempre consideratosi napoletano d’adozione e culturalmente, scommette su De Filippo. Dove finisca l’influenza del Lazio e cominci quella di Napoli è oggetto di dibattito storico che affascina da tempo; inoltre Sora a inizio Novecento, quando nasce Vittorio, è ancora Terra di Lavoro (grande errore di Mussolini smantellarla), e il nostro è figlio di un cagliaritano di origine salernitana e di una napoletana, quindi ha dimestichezza con Partenope. Lo avete mai sentito cantare in napoletano? Non male. Fu egli stesso a incoraggiare Massimo Ranieri, a inizio carriera, a insistere di più sulla sua terra d’origine. Anche il figlio Cristian si è spesso cimentato con la musica regional-internazionale (non soltanto negli ultimi tempi). Torniamo al tema. Che tipo di dramma è dunque il suo “Matrimonio all’italiana”, tratto dall’opera di Eduardo? A prima vista parrebbe lecito descriverlo per i suoi difetti, perché ne ha: probabilmente un dramma un po’ statico, da camera, con qualche zoppia come lo sono altri film del periodo finale di Vittorio. Ma anche eccezionalmente vivo grazie al carisma dei due interpreti principali e a un certo calore “meridionalista” della messinscena. Napoli appare e scompare nella pellicola e non è protagonista assoluta, a differenza di occasioni numerose nelle quali la città sembra sostituirsi ai protagonisti stessi, risultando persino invadente nella sua prominenza. Non è mai stato davvero facile metterla per immagini, e oggi che è tornata di moda e viene tirata per la giacchetta anche da chi è privo di cultura e di intelligenza lo è ancor meno.  Una parte rilevante della narrazione nel film è affidata anche a San Sebastiano al Vesuvio, mostrata però più nei suoi ruderi del dopoguerra che non come quell’oasi di pace che è diventata nel corso dei decenni del secondo Novecento, un comune vesuviano tra i più quieti e ordinati al punto da meritarsi per diverso tempo l’appellativo di Svizzera del Vesuvio, idillio questo che sembra essersi spezzato in tempi recenti per diversi fatti di cronaca, laddove invece paesi più irrequieti e sfrontati sono riusciti a darsi un po’ di pace che non fosse soltanto quella del camposanto. Una San Sebastiano peraltro ab illo tempore straziata dall’ultima eruzione, che la danneggiò gravemente. Anche il casting appare un po’ forzato, forse frutto di una scelta in qualche modo suggerita dal botteghino: il laziale Mastroianni – anch’egli nato in Terra di Lavoro, ma in comune che tre anni dopo sarà già provincia di Frosinone –  che si doppia da solo (non ha mai avuto una voce di fulgida bellezza, per quanto particolare fosse) si impegna per una lingua che non è la sua ma che gli risulta, nonostante tutto, congeniale e funzionale, ma non è il solo del gruppo a non far parte dei nativi. Discorso differente è ovviamente riservato alla Loren che non fatica a giocare in casa e può permettersi di stare sopra le righe senza mai esondare, fotogramma per fotogramma. Già trentenne, non più promessa ormai ma realtà affermata in campo internazionale (La Ciociara, sempre diretto da De Sica, era uscito pochi anni prima), la diva di Pozzuoli risulta più credibile in quella parte della narrazione che si dipana nel trascorrere degli anni che non nell’iniziale dramma postbellico, dove la si vorrebbe prostituta diciassettenne, quindi meno credibile per questioni anagrafiche. Napoli è presentata all’inizio con immagini che la mostrano dispiegata nella bellezza del lungomare Caracciolo, ma poi si passa celermente ai vicoli, al punto tale che è difficile riscontrarne quartieri, rioni e vie con precisione (anche se so che diversi lettori napoletani dissentiranno su questo); torna però protagonista con decisione la città quando compare specialmente nei frame delle sequenze finali, dove con una certa prepotenza architettonica emerge il magnifico bugnato della Chiesa del Gesù Nuovo, al punto da far  evincere chiaramente che l’abitazione di Don Domenico è proprio a ridosso della piazza, con l’immancabile obelisco, e guarda la Chiesa sovrabbondante di epoca spagnola sulla sua sinistra, e invece il lato sinistro dello spoglio e angioino Monastero di Santa Chiara per vie frontali. Ma per la verità le location suggestive sono numerose, anche se non tentano mai di sottrarre ai protagonisti lo scettro: via Santa Maria di Costantinopoli, per esempio, dove si trova una chiesa tra le più importanti in Europa e non sempre particolarmente valorizzata a dovere a Napoli, ma anche l’ippodromo di Agnano, e poi via Partenope e il Porto, la ancora movimentata e chiassosa Piazza Bellini, centro della movida partenopea per lungo tempo. Cosa resta di Eduardo in questa messinscena così nota e nazionalpopolare, per questo film che da decenni è ormai un classico del cinema italiano? Forse non del tutto lo spirito e la finezza della sceneggiatura, ma nel fondo la sua presenza aleggia (forse come un fantasma). Il film è a colori e sono colori brillanti, sgargianti, tendenzialmente saturi: anche questo sembra rendere distante il lungometraggio da quei tanti bianco-nero ai quali siamo abituati con Eduardo, o ai suoi spettacoli colorizzati con tinte tenui.