“La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”. Questo è il contenuto dell’art.9 della Costituzione Italiana che sarebbe utile ritrovare agli ingressi di tutti i monumenti e aree archeologiche italiane. Sarebbe particolarmente significativo leggerlo ad ogni ingresso degli scavi di Pompei, dove sono in corso, dopo anni di colpevole incuria gestionale, significative azioni di tutela rese possibili da una rinnovata ed efficiente governance e da una costruttiva collaborazione tra lo Stato Italiano e l’Unione Europea che ha impegnato, in diversi anni, circa 170 milioni di Euro.
La tutela è l’impegno principale, solenne e inderogabile di ogni governo. Attuarlo a Pompei, senza esitazioni e con buone e coerenti pratiche, serve a Pompei e alla reputazione italiana nel mondo. In pratica, le specifiche istituzioni pubbliche (le soprintendenze, nelle diverse articolazioni di competenze e territorialità) che comunemente chiamiamo “Stato”, devono essere dotate (non private) di strumenti e dignità scientifica, per essere realmente soggetti attuatori della tutela.
Troppo spesso e da più parti del Paese al termine tutela si sostituisce con l’enfasi retorica dei profitti economici e d’immagine (spesso per pochi), un drogato concetto di famelica “valorizzazione”, killer della tutela. Le azioni prodotte- quasi sempre unicamente mediatiche e raramente strutturali e durature – condite di spettacolarizzazione e suggestioni seducenti, sono naturalmente gradite e talvolta ispirate da temerari governanti, inevitabilmente assecondati da temporanei dirigenti, gestori di aree monumentali. Se la “valorizzazione” sgomita per farsi largo a danno della tutela, a non essere tutelata non è solo l’integrità di un bene culturale, ma la stessa Carta Costituzionale. Spesso è violata da attività di attuazione dello specifico articolo sulla tutela, che appaiono improvvide e dagli effetti contrari ai principi da attuare.
Pubblicare come è stato fatto dalla direzione generale del Parco archeologico di Pompei- in attuazione di una legge – il regolamento,il prezzario e il relativo elenco di siti e luoghi archeologici a cui si applicano per essere usati in modo esclusivo e privato, è certamente un esercizio di buona comunicazione della Soprintendenza verso la comunità. Portare soldi nelle casse di un ufficio periferico di tutela è sempre necessario. Non è però dignitoso per un bene di proprietà dello Stato – anche se le leggi offrono queste possibilità – farlo svendendo e talvolta ridicolizzando il bene culturale, chiamato Pompei, Oplontis, Stabia, degradato a giostra e offrendolo “in affitto” per una serata. Se parliamo di bilanci applicati alla gestione di un bene culturale, che è “bene comune primario”, quello economico è importante ma non è né l’unico e nemmeno il più significativo, affinché un ufficio periferico dello Stato resti coerenti al principio costituzionale della tutela e del pubblico godimento dei beni culturali. Vi è un valore di democrazia da rispettare e la “Reputazione-Paese” da far crescere.
Se poi i giornali nazionali e del mondo intero dovessero criticare Pompei e l’ottima gestione del direttore generale Massimo Osanna, ridicolizzando ancora una volta l’Italia per come tratta la sua più invidiata risorsa, anche con titoli irriguardosi come la “coltellata” di qualche anno fa di “Le Monde” (“Ma l’Italia ha ancora la competenza per occuparsi di Pompei” fu lo spietato titolo), nessuno potrà dire, a discolpa, che i giornali creano le notizie. Perchè i bravi giornalisti le notizie le riconoscono tra i fatti, come i bravi archeologi le scoperte storiche tra i cocci.