Le 102 udienze del maxi-processo all’area sovversiva di sinistra terminarono il 28 novembre del 1983. E’ il processo aperto a Milano per l’omicidio di Walter Tobagi ammazzato il 28 maggio 1980 con cinque colpi di pistola esplosi da un “commando” di terroristi di sinistra facenti capo alla Brigata XXVIII marzo, buona parte dei quali figli di famiglie della borghesia milanese. Nel giro di pochi mesi dall’omicidio, le indagini di carabinieri e magistratura portarono all’identificazione degli assassini. Marco Barbone, figlio di Donato, dirigente editoriale della casa editrice Sansoni (di proprietà del gruppo Rcs), decise di collaborare con gli inquirenti e grazie alle sue rivelazioni l’intera Brigata fu smantellata. nel gruppo c’èera anche Paolo Morandini, figlio del critico cinematografico del quotidiano Il Giorno Morando Morandini. A sparare furono Mario Marano e Marco Barbone. È quest’ultimo a dargli quello che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto essere il colpo di grazia: quando Tobagi era ormai accasciato a terra, il terrorista gli si avvicinò e gli esplose un colpo dietro l’orecchio sinistro. In realtà, da come risulta dall’autopsia, il colpo mortale fu il secondo esploso dai due assassini, che colpendo il cuore causò la morte del giornalista. La sentenza suscitò molte polemiche poiché il giudice Cusumano, interpretando la legge sui pentiti in modo difforme rispetto al Tribunale di Roma (dove furono comminate comunque pene a oltre vent’anni di carcere ai terroristi pentiti delle Unità comuniste combattenti), concesse a Marco Barbone, Mario Ferrandi, Umberto Mazzola, Paolo Morandini, Pio Pugliese e Rocco Ricciardi «il beneficio della libertà provvisoria ordinandone l’immediata scarcerazione se non detenuti per altra causa»[7], mentre agli altri membri della XXVIII marzo, De Stefano, Giordano e Laus, furono inflitti trent’anni di carcere
M|CULT
28 novembre 2017
La sentenza sull’omicidio di Walter Tobagi