Tutto inizia con una fiammella tremolante accesa sul fronte tedesco. È un secolo e 3 anni fa, nel cuore d’Europa, tra Belgio e Francia. Siamo nella Grande Guerra.
«Guardi laggiù, signore», urla il soldato al caporale inglese sporgendosi oltre la parete di fango della trincea. Tre fucili puntano contemporaneamente a destra.
«C’è una luce anche lì», dice un secondo soldato indicando in un’altra direzione. I fucili si spostano di nuovo.
Poi ne spunta un’altra. E poi un’altra ancora.
Le candele dei tedeschi si accendono sul terreno che odora di morte e sui rami degli alberi spogli com’è la vita nell’inferno di Ypres, una città medievale delle Fiandre. Non è una resa, visto che non ci sono bandiere bianche al vento, e nemmeno sono armi. E poi si sentono quelle voci. Che sembrano canti. Anzi, sono canti. «Ma cosa sta succedendo?», si chiede il caporale inglese. Tutti zitti, poi una voce alle sue spalle squarcia il silenzio: «È Natale, signore». Semplicemente Natale.
Non ci sono ordini di cessate il fuoco, ma all’improvviso anche gli inglesi prendono a cantare. Piano. Poi più forte. Fino a farsi sentire dai nemici.
L’amore è sceso in mezzo alla morte e ha fermato la Grande Guerra. O almeno l’ha fermata per una notte. E lo farà per qualche ora anche il giorno dopo. Quella sera c’è neve e freddo nelle Fiandre, ma la voglia di vivere che trabocca dalle trincee diffonde calore e fratellanza nella terra di mezzo. E quei ragazzi spediti al fronte per ammazzarsi si ritrovano abbracciati sotto lo sguardo stravolto degli ufficiali. Nessun comando, semplicemente la magìa del Natale che contagia tutto il fronte in quella notte del 1914.
Bruce Bairnsfather, umorista prestato alle armi coi gradi di capitano di un’unità di mitraglieri inglese, appunta le immagini sulla sua agenda.
«I soldati dell’uno e dell’altro schieramento prendono ad attraversare la terra di nessuno per scambiarsi piccoli doni, cibo, cioccolato tabacco, alcolici e souvenir», che poi sono i bottoni delle divise e dei berretti sdruciti. Oppure semplici spillette in ferro battuto.
Qualcuno riesce addirittura a tirare calci a un pallone e ci piace immaginare che sia stata la partita delle partite, anche più leggendaria della finalissima del Mondiali del ‘66, quando Geoff Hurst piegò con due reti e un gol-non-gol (traversa e riga bianca) i panzer aggrappati a Franz Beckenbauer sull’erba di Wembley.
Durante la pace piombata nella Grande Guerra, i soldati pensano anche ai caduti nel fango, e quel Natale molti eroi trovarono almeno una degna sepoltura. In qualche caso l’artiglieria resta in silenzio fino alla notte di Capodanno. Ma ormai la magìa del Natale inizia a sparire ovunque, e ovunque inizia a sparire anche la pace. Le candele si spengono, i canti si interrompono, non ci si scambiano più souvenir. Il piombo torna a uccidere e il sangue ricomincia a scorrere tra neve e fango. Non c’è più posto per l’amore, anzi, gli alti comandi delle forze europee ordinano il divieto assoluto del “cessate il fuoco” spontaneo, e dall’anno successivo fallisce qualsiasi tentativo di riaprire le porte dell’inferno alla magìa del Natale.
Da quella tregua in poi, ogni guerra sarà solo e soltanto guerra. Piombo, sangue, attacchi chimici e, ovviamente, morte. Nient’altro che morte.
Quella notte di un secolo e tre anni fa resterà solo un mito. Bruce Bairnsfather, l’umorista in divisa, la racconterà da sopravvissuto. «Non dimenticherò mai quello strano e unico giorno di Natale», scrive. Una favola che accadde davvero. Sì, perché gli uomini, a volte, sono persino capaci di amare.