Benvenuti nel Paese dei tartassati, dove metà stipendio (beato chi ce l’ha), si trasforma in tasse. Dove la realtà è diversa dalle cifre ufficiali perché c’è un esercito di furbetti che non versa un euro, e un altro che si sobbarca tutto. I numeri dicono che la pressione fiscale è in calo dal 2014, ma nella realtà la percezione è un’altra, e la fotografa la Cgia: «sui contribuenti fedeli al Fisco pesa una pressione fiscale “reale” che si attesta al 48,3%». Più o meno sei punti percentuali in più rispetto a quella ufficiale. Tradotto. C’è chi paga le tasse su quello che guadagna, e paga salato, e chi i guadagni se li infila in tasca senza concedere una briciola alla comunità. Una piaga che rischia di piegare il Paese. Che allarga la forbice dei redditi.La pressione realeL’Ufficio studi della Cgia, che da anni effettua un monitoraggio attento sull’andamento della pressione fiscale “reale”, è giunta alla percentuale che sfiora il 50% tenendo presente la piaga dell’economia sommersa, riconducibile alle attività irregolari che, non essendo conosciute al Fisco non versano né tasse, né imposte e né contributi.Un dossier dell’Istat dice che l’economia fantasma genera affari per 207,5 miliardi di euro (pari al 12,6% del Pil), di questi, quasi 190,5 miliardi sono attribuibili al sommerso economico e gli altri 17 alle attività illegali.La piaga evasioneRicordando che la pressione fiscale ufficiale è data dal rapporto tra le entrate fiscali-contributive e il Pil prodotto in un anno, nel 2018 al lordo del bonus Renzi questa è destinata a scendere al 42,2%. Tuttavia, se “togliamo” dalla ricchezza prodotta la quota addebitabile al sommerso economico e alle attività illegali che, almeno in linea teorica, non producono nessun gettito per l’erario, il Pil diminuisce (quindi si riduce il denominatore), facendo aumentare il risultato che emerge dal rapporto. Pertanto, la pressione fiscale “reale” che grava su lavoratori dipendenti, sugli autonomi, sui pensionati e sulle imprese che pagano correttamente le tasse e’ superiore a quella ufficiale di 6,1 punti: per l’anno in corso è destinata ad attestarsi al 48,3%. Anche se in calo rispetto agli anni precedenti, il peso complessivo del Fisco rimane comunque ad un livello insopportabile.Il futuro è buioLa Cgia tiene inoltre a preci- sare che la pressione fiscale ufficiale calcolata dall’Istat (nel 2018 prevista al 42,2 per cento) rispetta fedelmente le disposizioni metodologiche previste dall’Eurostat. Per il 2019, infine, la pressione fiscale potrebbe tornare ad aumentare sia perché la crescita del Pil è data in frenata da tutti gli organismi internazionali sia a seguito di un possibile aumento del prelievo fiscale. Nel caso, infatti, non si dovessero trovare 12,4 miliardi di euro, dal primo gennaio 2019 l’aliquota Iva, attualmente al 10%, salirebbe all’11,5 per cento; altresì, quella attuale del 22% schizzerebbe addirittura al 24,2.Le richieste di BruxellesPer quanto concerne le richieste avanzate da Bruxelles, è molto probabile che per il 2019 dovremo metter mano ai nostri conti pubblici per quasi 10 miliardi, dopodiché, bisognerà trovare circa 2 miliardi di euro per il rinnovo del contratto di lavoro degli statali, ulteriori 500 milioni di spese “indifferibili” e altri 140 milioni per evitare l’aumento delle accise sui carburanti a partire dal primo gennaio 2019. Viste le difficoltà incontrate con il decreto dignità – concludono dalla Cgia – non è da escludere che almeno una parte di questi 25 miliardi di euro possa essere finanziata attraverso un incremento del prelievo fiscale. Un’ipotesi che l’esecutivo ha scartato da tempo, ma che potrebbe essere costretto a ricorrere in mancanza di alternative.L’allarme della CgiaIl coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia, Paolo Zabeo, considera la soglia raggiunta quest’anno ingiustificatamente elevata. E «se alle tasse aggiungiamo il peso oppressivo della burocrazia, l’inefficienza di una parte della Pubblica amministrazione e il gap infrastrutturale che ci separa dai nostri principali competitori economici, non c’è da stupirsi che serpeggi un certo malessere». Il segretario della Cgia, Renato Mason, va anche oltre l’allarme. «A parte lo sforzo economico che anche quest’anno i contribuenti sono chiamati a sostenere, gli italiani devono sopportare un costo aggiuntivo legato alle difficoltà nell’adempiere agli obblighi tributari. In Italia sono necessarie 238 ore all’anno per pagare le tasse, contro le 139 richieste in Francia e le 110 previste nel Regno Unito. Un gap che ci fa capire quanto la cattiva burocrazia presente nel nostro Paese abbia allungato ingiustificatamente i suoi tentacoli».
Economia
30 luglio 2018
Tasse, il cappio al collo Pressione reale al 48,3%