Avevo 15 anni. Ero iscritto alla Federazione giovanile comunista italiana. Iniziava, tra i prodromi e le temperie che annunciavano il ‘ 68 italiano, il processo della mia formazione politico-culturale quando arrivarono in sezione la notizia e le immagini della morte di Ernesto Guevara. Fu così spenta la sua radicale avversione per le cose come erano sempre state piuttosto che come, nel suo sogno rivoluzionario, dovevano essere. La spina del dolore, una cupa tristezza e un malinconico pianto avvolsero quel luogo per la perdita di una figura della quale, solo nel corso d’imponenti manifestazioni di protesta, comprendemmo pienamente il valore e il significato.Comprensione che già quel giorno cominciava a radicarsi perché diventavano, ora dopo ora, sempre più nitide le modalità della morte e sempre più chiare le spettrali ed evocative immagini di quel corpo umano, deposto su una lurida barella di un lavatoio.Dopo una lunga agonia, con una pallottola conficcategli nel cuore, tiratagli da distanza ravvicinata, il 9 ottobre del 1967 fu “giustiziato”, in una baracca di Higueras, Ernesto Guevara, detto il Che.
La foto del suo corpo inanimato, esposto dalle forze armate boliviane come trofeo e riconoscimento ufficiale e pubblico del nemico sconfitto, fece il giro del mondo. Ebbe una tale forza evocativa, quella foto, che tanti intravidero analogie e similitudini con il dipinto rinascimentale del Cristo del Mantegna. La posizione del corpo, l’espressione del volto, la barba e i capelli lunghi, i piedi scalzi, il petto e le braccia scoperte per mostrare le ferite e il suo percorso umano furono a fondamenta di quell’accostamento, seppure un po’ blasfemo, con la vita e la morte del Gesù di Nazareth. Quella foto e la foto di Kordo (con il basco e la stella ) del Guerrilero heroico e quel giorno segnarono la nascita del più grande mito rivoluzionario del xx secolo, della più importante icona della lotta contro tutte le ingiustizie. Il suo fallimento militare fu, più da morto che da vivo, un trionfo per le sue idee.Aveva 39 anni.Era nato a Rosario in Argentina il 14 giugno del 1928 da genitori di idee e formazione, diremmo oggi, democratico-progressiste.Medico, scrittore e guerrigliero fu, con Fidel Castro, tra i protagonisti fondamentali della liberazione di Cuba dalla dittatura militare e dall’asservimento alla grande potenza degli Stati Uniti d’America.Non era venuto al mondo per esercitare funzioni ministeriali a Cuba perché, come sosteneva, oltre e altre terre reclamano “ il mio modesto sforzo”. Sforzo stroncato, nella sua ultima disperata missione sulla Quebrado de Churo, perché priva di valore politico-militare la sua strategia fondata sulla concezione “focalaista” ovvero che era possibile innescare una rivoluzione partendo da un piccolo focolaio ribelle. Sono passati 52 anni dalla sua morte. Il mondo è cambiato e sembra non scaldarsi più per nessuno.
Talvolta appaiono, nella storia del mondo, dei Che Guevara di cartapesta incapaci, naturalmente, di restituire alle nuove generazioni la stessa bellezza, la stessa folle generosità e la stessa poesia di quel donchisciottesco e romantico Cavaliere della “Mancia” sudamericana. E’ bello, in ogni caso, sapere che la morte non l’ha inghiottito nel buco senza fondo del tempo passato ma che continua a vivere, nel cuore di milioni e milioni di esseri umani, come un’idea tra le più alte e nobili del Novecento. Ci sono infatti morti, come Ernesto Che Guevara, che non muoiono mai.