Torre del Greco. La sua passione per le corse dei cavalli non rappresenta un segreto all’ombra del Vesuvio. Perché già ai tempi in cui era un «semplice» dipendente comunale – durante gli anni Ottanta e Novanta – l’assessore Gennaro Granato, oggi delegato al bilancio della giunta guidata dal sindaco Giovanni Palomba, non faceva mistero del suo spiccato interesse per le competizioni ippiche. Un «vizio» poi trasmesso al primogenito, con disastrose conseguenze per l’intera famiglia: lo storico braccio destro dell’ex sottosegretario alla difesa Gioacchino Alfano e il figlio Francesco Saverio Granato sono, infatti, le vittime «eccellenti» del giro di usura messo in piedi dallo spietato pregiudicato Salvatore Perfetto insieme alla compagna Mariarca Camelia, incensurata di 27 anni. Arrivati a vantare un «credito» di 25.000 euro dai due appassionati del gioco d’azzardo.
La scoperta shock
Il retroscena emerge tra le pagine dell’ordinanza di custodia cautelare con cui il gip Antonio Fiorentino del tribunale di Torre Annunziata ha spedito dietro le sbarre del carcere la coppia di cravattari di Cappella Nuova, il quartiere a due passi dal colle di Sant’Alfonso. Tra le ipotesi di reato avanzate dal titolare dell’inchiesta spiccano i prestiti a strozzo al figlio di Gennaro Granato, ricostruiti dagli agenti del locale commissariato di polizia grazie a una perquisizione domiciliare a casa di Mariarca Camelia. All’interno dell’abitazione della donna, infatti, gli uomini in divisa ritrovarono – a ottobre del 2019, a un mese di distanza dall’agguato a colpi di pistola in via del Monte all’origine delle indagini – tre assegni sottoscritti proprio dall’assessore al bilancio con scadenza 31 dicembre 2019, 31 gennaio 2020 e 28 febbraio 2020. Una circostanza capace di fare insospettire gli investigatori, considerato come gli assegni post-datati sono vietati dalla legge. La risposta ai dubbi degli uomini in divisa oggi guidati dal primo dirigente Antonietta Andria sarebbe arrivata grazie a un’intercettazione ambientale catturata all’interno dell’auto della ventisettenne: durante un colloquio «volante» davanti a un circolo ricreativo in zona Litoranea, la compagna di Salvatore Perfetto chiese al titolare del locale di rintracciare Francesco Saverio Granato per «una imbasciata».
Calvario lungo 4 anni
Incrociando i dati delle attività investigative, gli uomini in divisa sono riusciti a ricostruire il vortice criminale in cui erano piombati il politico e il figlio a partire dal gennaio del 2016. Quando il giovane broker assicurativo, rimasto a corto di contanti, decise di chiedere un «aiuto» a Salvatore Perfetto per coprire le polizze di alcuni clienti. L’iniziale debito contratto da Francesco Saverio Granato era di 3.500 euro, da restituire in rate mensili con un interesse del 10%. Fu l’inizio di una spirale senza fine: a dispetto del «regolare» rimborso degli interessi, durante il 2017 il debito aumentò vorticosamente a causa dell’erogazione di ulteriori somme di denaro alle stesse condizioni usurarie. Un giro di strozzo soffocante, culminato con la richiesta – a maggio del 2019 – avanzata dal figlio dell’assessore di ricevere ulteriori 2.000 euro in cambio di un Rolex come garanzia.
La rinegoziazione del debito
Quando i pagamenti divennero impossibili da sostenere, intervenne direttamente il responsabile al bilancio dell’esecutivo di palazzo Baronale: Gennaro Granato – già nominato assessore dal sindaco Giovanni Palomba – incontrò Salvatore Perfetto per «rinegoziare» il debito di famiglia. Da «consumato politico», l’ex braccio destro di Gioacchino Alfano riuscì a strappare uno «sconto» dagli iniziali 25.000 euro a 19.000 euro: i primi 4.000 euro furono pagati in contanti, il resto venne pagato con i tre assegni post-datati poi ritrovati dagli agenti di polizia a casa di Mariarca Camelia. Una storia da incubo, taciuta per quattro anni prima da Francesco Saverio Granato e poi dal padre. Evidentemente intimoriti dalla «fama da duro» di Salvatore Perfetto, dipinto dallo stesso gip Antonio Fiorentino del tribunale di Torre Annunziata come un «criminale incallito» per cui perfino «la massima misura cautelare in carcere si può ritenere inadeguata». Parole capaci di spiegare la reticenza delle vittime nel denunciare lo spietato cravattaro di Cappella Nuova.
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