Dall’assistenza agli anziani in un piccolo comune in provincia di Udine al reparto di malattie infettive del Cotugno. Dal paradiso all’inferno per una scelta non facile ma spinta dalla passione, dall’altruismo e dalla voglia di rimboccarsi le maniche e combattere questa maledetta battaglia. In prima linea, consapevole dei rischi nei quali anche lei, come i tanti altri camici bianchi, possono inciampare. «Fa parte del mestiere, ma noi non possiamo tirarci indietro, c’è chi ha bisogno di noi».
Accenna ad un sorriso Anna Del Gaudio. E’ una delle tante infermiere in trincea nella struttura di eccellenza per le malattie infettive, il Cotugno di Napoli. Ha ventinove anni e il suo sogno nel cassetto resta quello di aiutare gli altri. Una scalata veloce, prima l’università, poi i tirocini: dal nord al sud per cercare di vincere un concorso e lavorare in una struttura ospedaliera. Poi lo scorso anno il sogno si avvera, ma lontano da casa: ad 800 chilometri di distanza. Ma non si arrende. Decide di partire: nella città vesuviana, Boscotrecase, lascia la sua metà, suo marito Giovanni, e la sua famiglia. Inizia la sua grande avventura a Civitale del Friuli. Un contratto a tempo indeterminato anche se lontano dalla sua terra. Lavora sodo ma nel fine settimana si infila sul primo treno per ritornare a casa e riabbracciare i suoi amori, poi di nuovo sù, dall’altra parte dell’Italia. Un mese fa l’inizio di quella che solo una settimana fa è stata dichiarata pandemia, i primi casi di contagio al nord, poi al sud. L’ansia di stare lontano da casa mentre il Covid-19 iniziava ad avanzare e divorare vittime. Poi la telefonata dal Cotugno, inaspettata: «c’è bisogno di personale». Anna non ci pensa due volte e si precipita nella sua terra. «Non è stato semplice – racconta la giovane donna – da una parte la mia famiglia era contenta che mi fossi avvicinata, ma dall’altra erano e sono ancora preoccupati per me». Lavorare in corsia in questi giorni di inferno per Anna significa mettere in campo tutta se stessa. «Si lavora senza sosta – racconta mentre è ancora esausta – io e i miei colleghi entriamo con il sole e usciamo a notte fonda, quando riusciamo ad avere qualche ora libera per recuperare le forze, la lucidità».
Anna racconta di un ospedale in cui si lavora cercando di tenere il sorriso sempre stampato sulle labbra, anche se è sempre più difficile. «Ci passano davanti pazienti di ogni età, conosciamo i loro nomi a memoria e anche il loro quadro clinico, ma più di tutto il loro respiro». Per molti di questi la frequenza respiratoria è minima e il rumore dei monitor e dell’ossigeno fanno eco tra le pareti di stanze chiuse, dove i pazienti sono costretti a stare in isolamento. E’ qui che Anna trascorre il suo turno di lavoro: «Cerchiamo di stare vicino ad ognuno di loro – continua con voce timida – cerchiamo di non lasciarli soli nemmeno un minuto ma purtroppo l’unico contatto che possiamo avere con loro è negli occhi, nello sguardo». Il malato di Covid-19 non si lamenta ma ha gli occhi velati dalle lacrime, stanchi. «Sono persone tristi, sole, senza parenti che possono stringergli la mano e incitarli ad avere coraggio e fiducia, a farsi forza a non mollare – continua – e questo è l’aspetto peggiore: da quando hanno messo piede in ospedale hanno perso ogni contatto con il mondo e l’unico contatto che hanno con noi è nello sguardo». Sguardi assenti, fissi nel vuoto che si riaccendono appena Anna usa il suo cellulare per donargli un sorriso. «Una videochiamata con un loro familiare diventa per un istante un antidoto al virus, i loro occhi si illuminano e devi trattenere la lacrime, dargli forza, e non sempre è facile». Ma c’è un aspetto che non impedisce ad Anna di piangere: «Vedere nei loro occhi la paura, quella la vedi, la senti anche se loro non dicono nulla e fa male». Anna però non molla, e subito dopo ogni videochiamata ripete «forza che ce la faremo». Lo ripete al suo paziente ma anche a se stessa. E’ l’esempio della buona sanità, dell’impegno di giovani che hanno deciso di stare in trincea, di rischiare anche in prima persona il contagio ma che non mollano, non hanno paura. Un esempio che accende la speranza in questa lotta centro un mostro che nutre ogni giorno vittime. Intanto un’altra ambulanza arriva nel presidio di via Gaetano Quagliariello, un altro contagiato. Ma dal retro invece a lasciare l’ospedale è un carro funebre. La doppia faccia di una struttura dove le vite sospese su di un filo, in equilibrio per non cadere, sono nelle mani di eroi che stanno provando anche a mettere in campo tutte le loro forze e conoscenze per trovare un vaccino.